22 novembre 2024
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La applicabilità del criterio del prezzo del giusto consenso

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Proprietà industriale: l'applicabilità del criterio del prezzo del giusto consenso 

Avv. Duilia Delfino

ll criterio del prezzo del giusto consenso

Con la recentissima sntenza n. 24635 del 13 Settembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione affronta nuovamente l'annosa questione della liquidazione del danno fondata sul cd. 

"criterio del prezzo del giusto consenso" prevista dall'art.125 ,comma 2, del Codice Proprietà Industriale (C.P.I. ).

Il suddetto criterio consente al titolare di un marchio o di altro segno distintivo di richiedere al Giudice in via sussidiaria rispetto all'applicazione della disciplina civilistica del risarcimento del danno aquiliano, la liquidazione in proprio favore ed in via equitativa del danno derivante dalla contraffazione del proprio segno distintivo. 

La Suprema Corte si troca quindi a dare una interpretazione della norma in questione all'interno di una vocenda che ha per oggetto la contraffazione di un marchio e, che vede contrapposte due società che si occupano del settore dell'abbilgliamento: la Fenicia S.P.A. , titolare di un noto marchio, e la Dema s.r.l.

Il prefato organo giustiziale, dopo aver proceduto alla disamina della questione insorta tra le due società, arriva alla conclusione che la liquidazione del danno di cui all'art. 125 C.P.I., comma 2, si concretizza attraverso la corresponsione al danneggiato di una somma globale che viene stabilita in base agli atti di causa ed alle presenzioni che ne derivano; presunzioni che possono basarsi anche soltanto sugli elementi indiziari offerti dal danneggiato medesimo. Ne consegue che il danno risarcibile secondo il criterio del prezzo del giusto consenso non può mai essere astrattamente calcolato, ma, invce,  va provato quantomeno mediante l'ausilio di semplici presunzioni.


La vicenda giudiziaria: i tre gradi di giudizio

La vicenda oggetto di disamina inizia con la citazione in giudizio davanti al Tribunale di Torino da parte di Fenicia S.P.A. , società titolare di un noto marchio di abbigliamento, nei confronti di Dema s.r.l. società operante nel medesimo settore.

Fenicia ritendo Dema responsabile di contraffazione del proprio marchio e autrice di concorrenza sleale chiedeva che la società convenuta venisse condannata al risarcimento dei danni provocate dalle condotte e dai comportamenti scorretti assunti all' interno del mercato dall'abbigliamento ngli anni 2010 e 2011.

Il Tribunale adito, nell'analizzare la questione, riscontrava che Dema s.r.l. aveva posto in essere atti di concorrenza sleale dato che la Società convenuta aveva usato il marchio di titolarità di Fenicia sui prodotti da essa commercializzati e sulle insegne dei propri negozi, di guisa che esso giudice di prime cure accoglieva la domanda attorea e condannava la convenuta al risarcimento del danno.

L'entità del risarcimento del danno, invece, veniva valutata sulla base del rapporto tra fatturato e utili conseguiti da Dema per gli anni relativi alle violazioni commesse da quest'ultima, sul cui risultato a sua volta veniva calcolata un'ipoteca royalty che Dema avrebbe dovuto pagare  a Fenicia qualora quest'ultima le avesse licenziato il marchio.

Dema s.r.l. a seguito della ricordata pronuncia di prime cure, proponeva appello limitatamente al capo della sentenza relatvo al risarcimento dei danni.

La Corte di appello accoglieva il gravame proposto da Dema in quanto a suo giudizio Fenicia non aveva dato prova del danno subito, atteso che non aveva allegato alcun fatto specifico a sostegno della domanda risarcitoria. Difatti, a giudizio del giudice di secondo grado l'appellata Fenicia si era limitata a sostenere che il danno emergente comprendesse il costo supportatato dalla stessa pe accertare l'illecito e la diluizione del potere distintivo del marchio, e che il lucro cessante si sostanziasse  nel mancato guadagno derivante dal calo delle vendite dei prodotti rapportato allo andamento della commercializzazione futura dei prodotti all'interno del mercato.

Secondo la Corte di appello, la Fenicia non aveva provato il lucro cessante e, quindi, non potendosi applicare il criterio equitativo di risarcimento per l'assenza dei presupposti indicati nell'art. 125 comma 2 C.P.I. , la stessa Società appellata era stata condannata a restituire a Dema una somma pari ad Euro 250.471,71.

Avverso la pronuncia della Corte di appello di Torino Fenicia propponeva ricorso in Cassazione contestando le risultanze della sentenza di secondo grado. La Suprema Corte, una volta esaminata la questione, rigettava il ricorso ritenendolo infondato poichè, a suo parere, Fenicia non aveva provato il danno  subito.

Tale danno secondo il giudizio del giudice di legittimità,non può essere liquidato tout court e, cioè valutato in astratto, ma deve essere stimato sulla base degli atti di causae della presunzioni offerte da danneggiato, anche attraverso elementi indiziari.

IL RAGIONAMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Suprema Corte, come già anticipato sopra, ha ritenuto il ricorso presentato da Fenicia S.P.A. infondato. L' organo giudicante è giunto a tale conclusione dopo aver fatto un raffronto fra il disposto dell'art. 125 C.P.I. che disponeva le fattispcie del risarcimento del danno e della restituzione dei profittidell'autore della violazione in materia di proprietà industriale, e quello dagli artt. 1223 e ss. codice civile che delineavano i generali criteri di risarcimento del danno previsti da nostro codice civile.

La Corte, nel raffrontare le norme sopra citate, evidenzia come il giudice di prime cure, al contrario della Corte di Appello, una volta accertata la contraffazione, si sia erroneamente limitata a liquidare un risarcimento del danno a favore della Fenicia S.p.a. secondo il criterio di equità limitato a liquidare uin risarcimento del danno a favore della S.p.a. Fenicia secondo il criterio di equità di cui all'art. 125, comma 2, C.P.I. senza tuttavia dornire alcuna motivazione su come fosse giunto a tale determinazione. Infatti, la attrice/ticorrente, a parere della Cassazione, non solo era sta in grado di fornire prova diretta dei danni subiti, ma, addirittura, non era riuscita neanche a dare prova alcuna del danno subito neppure attraverso l'ausilio di elementi indiziari in forza dei quali si potesse comunque giustificare il criterio forfettario previsto dall'art. 125, comma 2, C.P.I.

Il giudicato di primo grado, a giudizio del Supremo giudice di legittimità, è stato, dunque, correttamente ribaltato da Corte di Appello, atteso che Fenicia S.p.a. non è riuscita a fornire prova alcuna dei danni lamentati in forza della suddetta contraffazione di marchio, non essendosi peritata di allegare alcun documento volto a dimostrare l'esistenza di effetti pregiudizievoli. Feenicia, a prere del giudice di secondo grado, si era limitata a effettuare una generica denunzia per i danni subiti. La Corte di Appello ha dunque esaminato la domanda risarcitoria avanzata da Fenicia sia sotto il profilo del danno emergente, sia sotto quello del lucro cessante ed ha osservato che la ricorrente non aveva allegato alcun fatto specifico da cui sarebbero derivati i danni lamentati.

Il giudice di Appello - come correttamente ribadito dalla Cassazione - infatti ha stauito che le allegazioni fornite da Fenicia fossero del tutto generiche e non riferibili al caso concreto. In poche parole Fenicia non è riuscita a dimostrare il lucro cessante, vale a dire l'arricchimento del contraffattore ed il danno ad esso correlato.Tale danno pur potendosi in astratto liquidare equitativamente non poteva aver trovato concretizzazione in quanto risultava del tutto impossibile  ipotizzare astrattamente che ogni vendita realizzata da Dema fosse una vendita non realizzata da Fenicia.

Il pregiudizio del lucro cessante, anche se secondo l'art.125, comma 2, C.P.I. può essere determinato in un importo pari a quello che l'autore della contraffazioneavrebbe pagato se avesse ottenuto la licenza dal titolare del diritto in base al cd. criterio del "giusto pezzo" del consenso, deve, comunque, esssere correttamente dimostrato e non frutto di ipotesi astratte.

Ne consegue che alla luce di quanto occorso nel processo di meito, la  Suprema Corte, reputando corretto il giudizio della Corte di Appello, ha ritenuto che il danno richiesto da Fenicia non poteva essere considerato quale ipotesi di danno configirabilein re ipsa e, pertanto, il danneggiato non può mai essere esonerato dall'onere della prova, qualora pretenda di ottenere il risarcimento del danno de quo.

Difatti se si analizza attentamente il dettato dell'art. 125 dl C.P.I. comma 2, risulta evidente che il danneggiato ha, in ogni caso, l'onere di dimostrare il danno subito. La predetta norma dispone infatti che il giudice possa liquidare il danno rapportato alla somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni  che ne derivano, unicamente sulla scorta quanto meno di elementi indiziari offerti dal danneggiato.

Tale danno, secondo la dottrina e la giurisprudenza si avvicina al cd. danno "concorrenziale" in quanto deriva anche esso da una alterazione dei fattori di mercato conseguenti allo illecito commesso dal contraffattore la cui condotta giustifica di per se l'irrogazione ddell'inibitoria anche in assenza di un danno economico attuale per il titolare del diritto violato.

Tuttavia il danno risarcibile ai sensi del 125, comma 2, C.P.I. nonostante le affinità con il danno concorrenziale, si distingue da quest'ultimo dal punto di vista risarcitorio in quanto per il concretizzarsi dallo stesso è richiesta un'alterazione attuale e concreta dei fattori di mercato. Ne consegue che se da un lato è vero che l'art. 125, comma 2, C.P.I. delinea una fattispecie di danno liquidabile equitativamente attraverso il  cd. criterio del giusto consenso ossia un parametro agevolatore dell'onere probatorio gravante sull'attore, dall'altro è anche vero che la suddetta liquidazione non può mai basarsi  su presunzioni astratte.

La Suprema Corte quindi non ha potuto che giustamente confermare quanto già statuito dalla Corte di appello, ovvero la liquidazione non può prescindere  dalla applicazione degli artt. 1123 Codice civile.

Tali artt. disciplinano la fattispecie del risarcimeto del danno sia con riferimento al profilo dela danno emergente sia per quanro attiene al lucre cessante e richiedono la sussistenza di un adeguiato rapporto di causalità tra l'illecito ed i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori specialmente  ove il danno debba essere valutato secondo equità.

 CONCLUSIONI

La Suprema Corte ha stauito che il concetto di equità rapportato alla liquidazione di un danno non può prescondere "dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l'illecito ed i danni sofferti ed allegati secondo i criteri ordinari provatori." artt. 1223,1226,e 1227 codice civileequindi non potrà mai essere determinata in astratto. Difatti se così non fosse si snaturerebbe del tutto il caposaldo del nostro sistema processuale. La Suprema Corte ha dunque fugato ogni dubbio fornedo ai Giudici un corretto criterio di interpretazione nella liquidazione del del lucro cessante secondo equità.-










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Commenti (1)add comment

Fernando Cannizzaro said:

...
E' consentito estrarre copia o stampare i documenti pubblicati su Filodiritto citandone ovviamente l'autore.
 
ottobre 24, 2021
Voti: +0

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Last Updated ( Sabato 23 Ottobre 2021 19:08 )  

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