Un punto dell' economia-La riduzione delle pensioni di Sandro Trento
FONTE: IDVstaff
Dal 1995, con la riforma Dini, è stato introdotto in Italia per i lavoratori che, al 31 dicembre del 1995, avevano meno di 18 anni di contributi, un nuovo sistema di
Quindi, al momento di andare in pensione, ossia al termine della vita lavorativa, i contributi che sono stati versati da ciascun lavoratore vengono sommati: in questo modo si ottiene quella che si chiama la base contributiva complessiva, ovvero il montante individuale sul quale si calcola poi la pensione. Va tenuto conto di due elementi molto importanti: il primo è che i contributi annuali sono rivalutati ogni anno in base al tasso di variazione quinquennale del prodotto interno lordo. Questo procedimento dovrebbe, in teoria, servire per consentire di recuperare la diminuzione del potere d’acquisto legata all’inflazione, quindi ogni anno i contributi versati dal lavoratore vengono rivalutati sulla base di questo tasso di variazione del Pil. Il secondo elemento di cui dobbiamo tenere conto è che il montante, ossia questa somma di contributi annuali, viene a sua volta moltiplicato per i cosiddetti coefficienti di trasformazione. Questi coefficienti di trasformazione trasformano, in pratica, il montante, cioè questa somma complessiva, in una rendita: se ci pensiamo un attimo, la pensione che è una rendita che viene derivata da un capitale che viene accumulato negli anni dal lavoratore. Quello che succederà dal 1 gennaio dell’anno prossimo, del 2010, è che verranno introdotti dei nuovi coefficienti di trasformazione: si tratta di vere e proprie tabelle che fissano dei coefficienti moltiplicativi basati sull’età della persona al momento in cui va in pensione, che tengono conto dell’aspettativa di vita. Per fare un esempio, se al 1 gennaio 2010 si va in pensione con 59 anni di età e un certo numero di anni di contributi, si avrà un coefficiente di trasformazione che è più piccolo rispetto a quello di un altro lavoratore che andrà in pensione con gli stessi anni di contribuzione, ma magari con un’età pari a 61 anni, ovvero quanto più alta è l’età e tanto più alto è il coefficiente di trasformazione, quanto più bassa è l’età nella quale si va in pensione, tanto più piccolo è questo coefficiente di trasformazione.
Quale è l’idea? L’idea è che, se c’è un’aspettativa di vita che calcoliamo oggi, per esempio, pari a 81 anni e uno va in pensione a 59 anni, ci si aspetta che godrà dell’assegno di pensione per almeno 22 anni, cioè 81 anni di speranza di vita e 59, che sono gli anni nei quali lui inizia a andare in pensione. Chi va invece in pensione a 61 anni avrà soltanto venti anni di pensione, ossia due anni di meno, per cui i coefficienti di trasformazione tengono conto, in qualche modo, di questa diversa aspettativa di vita. Per mantenere in equilibrio il sistema pensionistico si applica un principio per cui, quanto maggiore sarà il numero di anni in cui si godrà della pensione, tanto più piccolo sarà questo coefficiente di trasformazione.
Periodicamente, cioè ogni tre anni, queste tabelle saranno riviste in modo meno favorevole per i nuovi pensionati: mano a mano che, con il passare degli anni, avremo un’aspettativa di vita che migliora, cioè vivremo più anni, queste tabelle nuove terranno conto di questa maggiore aspettativa di vita, di questo maggior numero di anni di pensione e saranno, in qualche modo, meno favorevoli per i pensionati.
Dobbiamo dire innanzitutto che questo cambiamento, che avviene dal 1 gennaio 2010, si applica soltanto ai nuovi pensionati, quindi coloro che sono già in pensione non sono toccati da questa riforma. Questo nuovo sistema si applica in particolare a coloro che andranno in pensione con il sistema contributivo, quello che ho appena illustrato, per cui coloro che avevano meno di 18 anni di contributi il 31 dicembre 1995. Sostanzialmente si applica soprattutto ai giovani, a quelli che hanno un minor numero di anni di contribuzione e a quelli che, in futuro, andranno via via con il sistema contributivo.
Quali sono le questioni che sorgono?
Alcune stime recenti, fatte nei giorni passati, dimostrano che con queste nuove tabelle di trasformazione chi andrà in pensione il 1 gennaio 2010, ripeto, con il sistema contributivo, quindi non i lavoratori più anziani, che hanno maturato quaranta anni di contributi e vanno in pensione con il sistema retributivo, ma soltanto i nuovi pensionati che avevano meno di diciotto anni al 31 dicembre 1995, questi nuovi pensionati avranno una pensione che, sulla base di questi nuovi coefficienti di trasformazione, sarà tra lo 0,8 e il 3,7% inferiore rispetto a coloro che, per esempio, andranno in pensione o saranno andati in pensione a novembre o a dicembre di quest’anno, del 2009, con lo stesso numero di anni di contribuzione. Questi nuovi coefficienti di trasformazione comportano una diminuzione della pensione netta, che verrà ricevuta da chi andrà in pensione l’anno prossimo.
Quale è la questione che sorge? La questione che sorge fa riferimento a due aspetti: un primo dubbio che molti hanno è come mai il sistema di rivalutazione dei contributi, che ho illustrato prima, è calcolato sulla base dell’andamento del prodotto interno lordo, cioè perché per tenere conto del rischio di una svalutazione dei soldi versati si tiene conto del tasso di crescita del Pil, e non si è invece scelto un indicatore o un indice di infrazione, come tipicamente si fa per tenere conto dell’andamento del potere d’acquisto. In particolare, l’Italia un tasso di crescita del Pil che è molto basso da vari anni: pensate che nel 2008 il Pil è diminuito dell’1%, nel 2009, nell’anno in corso, probabilmente il Pil italiano diminuirà del 5, 4%. Quindi i futuri pensionati, i giovani di oggi che andranno in pensione tra qualche anno avranno per questi anni, per il 2008, per il 2009 e forse anche per il 2010, una diminuzione del loro valore dei contributi relativi a questi anni perché, come ho spiegato, la rivalutazione di questi contributi viene fatta sulla base dell’andamento del Pil nei cinque anni presi in considerazione, per cui si può anche avere una situazione di svalutazione di questi contributi. Una domanda che sorge è: è giusto, è corretto, è lecito utilizzare i tassi di crescita del Pil come sistema per rivalutare i contributi versati dai lavoratori nel sistema contributivo? Prima domanda.
Seconda domanda: è sensato che questo sistema di rivalutazione venga calcolato non soltanto sugli anni a partire dai quali effettivamente viene introdotto il sistema contributivo, ma sull’intero montante e quindi venga retrospettivamente applicato anche sugli anni precedenti? Anche sotto questo profilo è equo un sistema di calcolo di questo tipo? Questo anche con riferimento ai coefficienti di trasformazione, i quali non è che si applichino soltanto ai tre anni relativi alla loro introduzione, ma vengono applicati su tutto quanto il montante.
Ci sono dei problemi sotto il profilo dell’equità, del trattamento equo per chi andrà in pensione a partire dal 1 gennaio dell’anno prossimo con un sistema contributivo. Lo ripeto ancora una volta: stiamo parlando soprattutto dei giovani.
Detto questo però, non ci dobbiamo nascondere alcuni problemi di natura strutturale che riguardano il sistema pensionistico: la spesa pensionistica in Italia è il doppio rispetto a quella degli altri Paesi dell’area dell’Ocse, cioè degli altri Paesi ricchi. In Italia il rapporto tra le pensioni e il prodotto interno lordo è pari al 14%, contro il 7% della media Ocse. Le pensioni complessivamente assorbono in Italia il 30% del bilancio pubblico, contro circa il 16% in media dei Paesi Ocse e, anche sotto il profilo dei contributi pagati dai lavoratori, dobbiamo tenere conto che è molto costoso, perché circa il 33% dei salari lordi finiscono a finanziare i contributi previdenziali, la media Ocse è il 21%, quindi è molto più bassa. Questa maggiore spesa per le pensioni ovviamente va scapito di altre spese che potrebbero essere fatte: spese sia sul fronte sociale - e pensiamo al sostegno delle famiglie più povere - sia spese come l’istruzione, la ricerca, l’innovazione tecnologica. Se si utilizza questa grande somma di soldi per le pensioni vuole dire che non si possono fare altri investimenti.
Altra considerazione: l’età teorica di pensionamento in Italia è, ormai, simile a quella degli altri Paesi, parliamo di 65 anni per gli uomini, che è l’età che è adottata in gran parte dei Paesi avanzati. Ma se andiamo a guardare l’età media effettiva di pensionamento, ossia l’età in cui effettivamente i lavoratori italiani vanno in pensione, scopriamo una grande anomalia: in Italia l’età effettiva media di pensionamento per gli uomini è di 58 anni, per le donne è di 57, quindi vuole dire che vanno molto prima in pensione rispetto alla data teorica, all’età teorica. Per avere un’idea di confronto, in Germania l’età media effettiva di pensionamento è di 63 anni, 63 contro 65, cioè solo tre anni prima; in Italia è di 58 anni contro 65, i maschi in media vanno in pensione sette anni prima del tempo. Questo è un problema e è un problema molto serio, molto grave e è una delle ragioni per le quali andrebbe affrontato con coraggio un provvedimento che cerchi di innalzare il prima possibile l’età anagrafica minima effettiva di pensionamento. Se il governo avesse la forza e il coraggio di innalzare quest’età minima effettiva, si potrebbe anche pensare di ricalcolare in parte questi coefficienti di trasformazione di cui abbiamo parlato e di rendere il sistema in qualche modo più equo. Pensiamo che nel 2011 l’età anagrafica minima per andare in pensione in Italia sarà 60 anni, nel 2013 passerà a 61 anni e così via, quindi sarà un procedimento molto lento di adeguamento dell’età pensionabile. Quello che forse bisognerebbe avere è il coraggio di innalzare l’età di pensionamento e, in questo modo, di liberare risorse aggiuntive che potrebbero servire per rendere più equo complessivamente il sistema pensionistico, soprattutto a tutela delle giovani generazioni, che rischiano di andare in pensione con un tasso di copertura, quindi con una pensione che sarà pari al 30 /35% dello stipendio di quando erano lavoratori, un tasso di copertura che è molto inferiore rispetto al 75 /78% delle generazioni precedenti. C’è un problema di equità tra le generazioni, c’è una mancanza di coraggio da parte del governo a affrontare questa questione e a parlare in maniera chiara e trasparente agli italiani e ai giovani di come stanno le cose in questo momento.
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