23 dicembre 2024
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La visione prosopagnosica dell'attuale giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di interdittive antimafia

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La visione prosopagnosica dell’attuale giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di interdittive antimafia

Tratto da filodiritto

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Le pressoché costanti reiezioni da parte del Consiglio di Stato delle censure rivolte nei confronti delle informative antimafia, in nome di un del tutto generico “superiore interesse della difesa dei valori fondanti della democrazia”, evocano, in chi, come me cura da anni l’analisi del fenomeno senza pregiudizi manichei[1], l’immagine di un mondo in bianco e nero, il riflesso standardizzato, e per vero inquietante, di un disegno concettuale, frutto di astrazione indefinita ed indefinibile, che indiscutibilmente arreca patente pregiudizio allo scopo peculiare che dovrebbe informare la funzione della giurisdizione che è quello di assicurare ai consociati la garanzia dell’esercizio di una giustizia giusta e giammai occhiuta e cieca.

Rispetto a tale doverosa finalità l’attuale indirizzo della G.A. appare, al pari della affezione rappresentata dalla prosopagnosia, come una fotografia che non trasmette nulla e dove niente è familiare, una visione indistinta del tutto estranea ed avulsa dalla realtà ed in cui non appare agevole riconoscere le giuste peculiarità, ancorché le medesime siano di rilevanza essenziale per una corretta ermeneusi del fenomeno e si finisce, per l’effetto, di trascurare e confondere dettagli di significativa importanza. In buona sostanza è come guardare uno specchio senza ravvisare in esso alcuna immagine, neppure un semplice riflesso.

Di fronte ad un simile e purtroppo ormai cristallizzato ed obiettivamente non fisiologico indirizzo giurisprudenziale l’immediato e spontaneo interrogativo a cui occorre dare risposta è se è mai normale che in un ordinamento costituzionale democratico possa essere plausibile – senza alcuna previa determinazione dei presupposti e sulla aleatoria scorta di una valutazione di tipo prognostico possibilista –  che il potere dello Stato giunga sino al punto di comprimere diritti fondamentali, quali quelli di libertà, di proprietà e di iniziativa economica.

E se è conforme a jus  asserire a cuor leggero e per di più in termini apodittici – al solo fine di comunque legittimare il proprio monocorde e monolitico sindacato  giustiziale – che le interdittive “rappresentano la forte risposta dello Stato” tesa a salvaguardare i valori fondanti della democrazia da eventuali, probabili ma il più delle volte obiettivamente indimostrati  tentativi di infiltrazione mafiosa  tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società, delle imprese interessate e delle Amministrazioni locali, rectius prese di mira.

In realtà dette interdittive, adottate discrezionalmente dall’Autorità amministrativa, viepiù in assenza di un concreto e necessario contraddittorio endo-procedimentale, si fondano sulla mera ed astratta verifica della possibile persistenza del pericolo di contiguità con la mafia di una impresa tendenzialmente operante nell’economia legale.

Ed inoltre se è mai lecito che il sindacato giustiziale sulle conclusioni del Prefetto resti relegato alle sole ipotesi di manifesta illogicità, irragionevolezza ed al travisamento dei fatti, con l’obiettiva non fisiologica conseguenza che all’esercizio dello stesso rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento amministrativo di interdittiva.

Addirittura il G.A. si spinge sino al punto di ritenere, nonostante la palese indeterminatezza dei presupposti normativi che connotano l’informativa generica, che i medesimi non si pongano in contrasto con i principi ed i valori della Carta (articoli 3 e 117).

Per sostenere la propria, a mio parere, non commendevole azione ermeneutica tesa a legittimare l’adozione dei provvedimenti di interdittiva, la III^ Sezione del Consiglio di Stato definisce un sistema di tassatività sostanziale, persino laddove si sia in presenza di provvedimenti del giudice penale, sfavorevoli alle iniziative assunte in sede prefettizia quali le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, quando dagli stessi emergano valutazioni che, sebbene non superino la soglia della punibilità penale, possano comunque apparire (a giudizio di chi e su quali basi esso si possa fondare) sostanzialmente sintomatiche (ancorché obiettivamente non descritte ex lege) di possibile contaminazione mafiosa.

Tutto ciò, a ben vedere appare paradossale, atteso che in uno Stato democratico di diritto ogni provvedimento dell’Autorità statuale che va ad incidere sulle libertà dei singoli – qualunque ne sia la sua natura (penale, amministrativa o preventiva) – va  necessariamente sottoposto ad una disciplina sostanziale e processuale scrupolosa ed attenta e va altresì ancorato ad un controllo giustiziale di merito e di logicità inserito nell’ambito di  un contesto procedimentale che garantisca il pieno esercizio di difesa ed il contraddittorio, atteso che nessuna esigenza di politica di contrasto alla criminalità può mai legittimare il ricorso da parte dei poteri pubblici a sanzioni atte a disequilibrare il rapporto autorità-libertà tra Stato e cittadino, posto che ogni provvedimento destinato ad incidere la sfera dei diritti dei cives deve sempre rispettare le condizioni minime per poter consentire ai potenziali destinatari di difendersi adeguatamente in giudizio dinnanzi ad un giudice che, proprio per sua naturale ed intrinseca funzione, non deve meramente ratificare la decisione amministrativa de qua, ma che è deputato a verificare la legittimità formale ed i presupposti di fatto del provvedimento di interdittiva sottoposto al suo sindacato.  

In buona sostanza quanto sopra riferito, ritengo possa significare come non sia oggettivamente corretto che, sulla base di presupposti così labili come quelli definiti dal codice antimafia, possa essere attribuito al Prefetto il potere di adottare misure preventive di portata così pervasiva, soltanto sulla scorta di elementi che siano meramente immaginari ed aleratori.

Sant’Agostino in un passo del De civitate Dei ha affermato che uno Stato senza Diritto è una banda di briganti” identificando il diritto non con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere. In forza di ciò, per rimanere nell’ambito del tema, continuo a ritenere che la nobile e serissima esigenza di contrastare la criminalità organizzata possa essere affrontata e vinta rispettando il sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto, identificando il diritto non già con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere.

Non è, infatti, la legge che fonda la verità, ma è la verità che dà fondamento alla legge. Pertanto le leggi devono essere il frutto della coscienza di un popolo e non già espressioni impositivamente definite dall’alto. Il popolo, infatti, rispetta le leggi soltanto perché le sente come sue, perché ne è partecipe e ne è profondamente e coscientemente orgoglioso. Occorre avere il coraggio civile di riportare lo Stato alla sua naturale e nobile funzione di fonte produttiva di equità e di sicurezza sociale per evitare che lo stesso appaia ai consociati come soggetto che riflette espressioni di ingiustificata prepotenza, di distorta incertezza e di instabilità.

In buona sostanza occorre avere la dignità e la forza di riattribuire prestigio e valenza allo Stato di diritto la cui esaltazione non significa inibire o attenuare forma alcuna di contrasto alle pulsioni malavitose, bensì assicurare che i diritti di tutti i cittadini non vengano – con l’improvvido avallo dell’attuale prosopagnosica giurisprudenza del G.A. – sistematicamente calpestati senza garanzie.

La sospensione del diritto, purtroppo tanto cara al non esaltante legislatore dei nostri giorni, nonché l’introduzione di strumenti dell’emergenza, quali quelli di cui oggi ci occupiamo, possono avere una loro utilità soltanto se usati in casi rarissimi ed in situazioni assolutamente circoscritte e per di più vanno adoperati con assoluto espresso rigore per prevenire il sostanziarsi di prevaricazioni ed ingiustizie.

Con espresso riferimento al fenomeno delle interdittive generiche il non illuminato legislatore di questi nostri tempi ha creato – sia pur nel tentativo astrattamente lodevole di istituire una nuova frontiera contro le infiltrazioni c.d. mafiose – un mostro di inciviltà giuridica, un obbrobbio giudiziario che, calpestando il principio della presunzione di innocenza, ha determinato un essenziale vulnus, fondato sul sospetto e sull’aberrazione della presunzione di colpevolezza, che mina alla radice il principio della certezza dei diritti.

In buona sostanza un vero e proprio disastro per lo Stato di diritto in cui le libertà di ciascun cittadino restano affidate e senza garanzie agli organi della P.A. procedente e con il nuovo codice antimafia ad una sola parte del processo, ossia l’accusa, addirittura in tempo anteatto allo svolgimento dello stesso. Il sistema delle interdittive in pratica è teleologicamente preordinato – con l’avallo di una appunto prosopagnosica giurisprudenza – al solo distorto obiettivo di punire prima del giudizio.

La normativa in parola ha aperto la porta, purtroppo, senza riflessione alcuna in sede giudiziale, a quella cultura del sospetto che simboleggia l’esatto contrario di quella che dovrebbe essere la regola di ogni democrazia liberale che, fra l’altro, confligge in maniera e misura più che evidente con i principi di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e di presunzione di innocenza consacrati dalla Carta nonché con il diritto della proprietà privata che, come è noto, può essere sacrificato e limitato soltanto mediante giusto indennizzo.

Il sistema di tassatività sostanziale – a mio avviso, impropriamente prefigurato dal G.A. e segnatamente esaltato dall’ottica giustiziale incomprensibilmente uniforme e granitica della III^ Sezione del Consiglio di Stato e sostenuto dalla assoluta indeterminatezza delle condizioni legislative che consentono al Prefetto di emettere interdittive antimafia generiche – appare quanto di più illiberale ed insostenibile possa immaginarsi per uno Stato di diritto che per vocazione naturale ha messo costituzionalmente al bando gli oscuri fantasmi (paure e sospetti) caratteristici  dello Stato di polizia che inibiscono qualsiasi sindacato di compatibilità con i principi garantisti propri di un moderno Stato di diritto quale presumo ancora essere il nostro.

Nonostante l’assoluta rilevata indeterminatezza dei labili presupposti normativamente dettati, la valutazione in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità procedente perviene solo per il caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, avvalorata dall’esegesi condotta dal G.A., fa sì che il sindacato di quest’ultimo sulla legittimità dell’informativa antimafia resti confinato in un ambito estremamente ristretto dal quale rimane paradossalmente del tutto estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento di interdittiva.

Invero le situazioni indiziarie del descritto sistema di tassatività sostanziale postulate dalla III^ Sezione del Consiglio di Stato ipoteticamente atte a sostenere ed integrare le, comunque, ribadisco, improprie e labili indicazioni legislative, conducono, sempre nella ricordata ottica del G.A., a considerare legittimi i provvedimenti interdittivi anche in presenza di provvedimenti contrari del Giudice Penale allorquando le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni che non superino la soglia della punibilità penale, si pongono comunque, soltanto però sul piano meramente ed ingiustificatatamente ipotetico, quale momento sintomatico (e qui è il disastro ermeneutico) della contaminazione mafiosa.

In buona sostanza, mercé l’avallo giustiziale sopra riferito, si consente al Prefetto di utilizzare un margine di accertamento e di apprezzamento discrezionale di ampiezza senza precedenti, nella ricerca e nella valutazione dei fatti sintomatici di eventuali connivenze o collegamenti di tipo mafioso.  

Siffatto costrutto concettuale non appare condivisibile, perché l’interdittiva al di là della, a mio avviso, non corretta attuale vulgata giurisprudenziale, non può mai essere considerata atto preventivo di natura cautelare in senso proprio, bensì, momento provvedimentale definitivamente conclusivo del procedimento.

A ben riflettere, così come allo stato concepito, esso si manifesta piuttosto come documento di stampo meramente politico, anzi sociologico, una misura di astratta previsione sociale quasi sempre sorretta dall’ingiustificato ed insignficante stereotipo rappresentato dalle generiche informazioni riferite come acquisite “dalle Forze di Polizia” che, invece, al contrario anche di quanto erroneamente ritenuto dall’attuale giurisprudenza, riflette unicamente effetti defintivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra impresa e P.A.

In ragione di questa che a me appare evidenza più che lapalissiana, ritengo si possa  intravedere la possibilità di una svolta capace finalmente di iniziare ad erodere il tetragono monolite normativo avallato da una pressoché monocorde intepretazione giustiziale che sin qui ha ipotizzato, salvo rare eccezioni, di delineare concettualmente un’isola che non c’è, i cui paradigmi di riferimento sono rappresentati dalla classificazione dell’istituto quale fattispecie di pericolo che viene considerata vera e propria pietra angolare del sistema normativo c.d. “antimafia” a cui è riconnessa la precipua finalità di liberare il corpo sociale dalla pressione delle organizzazioni criminali attraverso l’ausilio dell’ormai standardizzato evanescente criterio probatorio del più probabile che non” – peraltro espunto dal suo ambito naturale e strumentalmente riadattato alla bisogna – fondato su indizi suppostamente ritenuti gravi, precisi e concordanti  e su dati conoscitivi utilizzabili, sia di natura tipica che atipica.

L’auspicata svolta, peraltro già dogmaticamente individuata ed espressa sia pure da un numero ristretto di giuristi, spero possa trovare finalmente una sua degna collocazione anche in sede giustiziale, con grande soddisfazione e plauso, per quel che vale, da parte mia.

La breccia nel muro del costante e monocorde leitmotiv delle decisioni giustiziali sin qui espresse, ciascuna delle quali pressoché sovrapponibili l’una all’altra, in quanto tutte rigorosamente informate e soggiacenti al mantra del politicamente corretto va aperta con il coraggio della ragione che deve necessariamente porsi in contrasto con l’ovattato e primordiale istinto di conservazione del pedissequo stare decisis del non esaltante orientamento giustiziale sin qui consolidato e che qui sommessamente ma con forza ritengo di poter contestare proprio sul piano della sua  costruzione  logica.

Con spirito di presidio ermeneutico e culturale degno assertore dei principi propri   dello Stato di diritto, occorre avere il coraggio e l’onestà intellettuale di porre un argine ad interdittive di mafia arbitrarie.

In ragione di ciò ritengo del tutto indispensabile chiarire, anche in sede giustiziale oltre che legislativa, perché mai il codice antimafia, nella parte in cui, con un provvedimento fondato su supposti “risalenti rapporti”, – viepiù in assenza di sentenze di condanna  e senza che sia emerso nel tempo, alcun condizionamento, nelle decisioni cruciali per la vita della società interdetta, ad opera di esponenti della criminalità – non preveda il necessario contraddittorio in favore del soggetto destinatario del provvedimento c.d. antimafia.

Non appare privo di significato rilevare come mai il G.A. non valuti in alcuna misura il fatto che il provvedimento di interdittiva sottoposto al suo esame di garanzia sociale e giuridica qualificata sia stato assunto dall’autorità prefettizia senza alcun contraddittorio tra la P.A. ed i soci dell’impresa, e, quindi, in totale assenza della essenziale fase partecipativa del procedimento amministrativo in ragione (per vero soltanto astrattamente commendevole) della necessità di anticipare l’eventuale pericolo di infiltrazione. 

Non riesco a comprendere come mai il  G.A., non prenda in considerazione alcuna l’evidenza che il provvedimento di interdittiva non costituisce misura provvisoria e strumentale bensì si connota quale “atto conclusivo del procedimento avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili ed inemendabili”, dal momento che l’interdittiva ha come effetto “la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore (a tal proposito è agghiacciante la frase contenuta in una sentenza del G.A. nella quale si è sostenuto che l’interdittiva “è come un diamante: eterna). Infatti la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che da quel momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei rapporti con la P.A. dal quale vengono estromessi, costituisce l’equivalente di una sostanziale condanna a morte.

In ogni caso non appare revocabile in dubbio che il provvedimento di interdittiva giammai possa essere considerato parte dei provvedimenti interinali e cautelari che consentono di escludere la necessità del contraddittorio, viepiù che la doverosa partecipazione al procedimento amministrativo, che deve essere garantita attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario del ricordato provvedimento interdittivo, “non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui riguardi opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al provvedimento conclusivo”. In buona sostanza il contraddittorio tra Prefetto ed impresa “assume importanza essenziale ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove ed argomenti convincenti per ottenere un’interdittiva liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli”.

Inoltre, e questa è cosa di non poco momento, va considerato che l’effetto del provvedimento interdittivo, così come oggi normativamente concepito e giustizialmente interpretato, determina la sostanziale messa al bando dell’impresa, senza che di contro sussistano, il più delle volte, motivi giuridicamente validi che possano escludere a priori la previsione del contraddittorio stesso.  

Va inoltre considerato, cosa che il Consiglio di Stato non ha purtroppo mai fatto, che la garanzia partecipativa con riferimento alle interdittive antimafia assume speciale ed ineludibile importanza “in relazione ad almeno tre circostanze”.

La prima è rappresentata dal fatto che le valutazioni prefettizie possono fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore ex articolo 84, 4° comma, del Decreto Legislativo n°159/2011 (c.d. reati spia), mentre altri elementi fattuali (c.d. a condotta libera) sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento dell’Autorità amministrativa che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa (cfr. articoli 91, 6° comma, Decreto Legislativo n°159/2011) anche da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali alle attività sociali, ovvero da elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare la criminalità organizzata o esserne in qualche modo condizionata (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. III, 30.1.2019 n°758).

La seconda è che tale sopra espressa ipotesi di condizionamento indiretto comprende un numero di evenienze davvero molto significativo e, comunque, appare di difficile distinzione rispetto ai casi di imprese che subiscono la criminalità organizzata, risultandone vittime.

La terza, infine, è costituita dall’obiettiva evidenza che il G.A., chiamato a soppesare la gravità delle circostanze poste a base della valutazione prefettizia, è abilitato ad esercitare un sindacato giurisdizionale estrinseco sull’esercizio di siffatto potere che comporta un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consentendo al medesimo di sindacare l’esistenza o meno dei fatti stessi (eccesso di potere quale vizio della funzione, mai purtroppo sin qui a sufficienza valutato).

In considerazione delle su espresse ragioni non appare revocabile in dubbio che il contraddittorio tra il Prefetto e l’impresa nella fase procedimentale assume un’importanza davvero rilevante ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa stessa la quale ben potrebbe offrire al Prefetto prove materiali ed argomentazioni convincenti, di rilevanza e pregnanza tali da ottenere un provvedimento di liberatoria dell’interdittiva anche in presenza di elementi ed indizi c.d. sfavorevoli.

Un’ulteriore considerazione, di non poco momento, va altresì aggiunta  a sostegno del ragionamento sin qui da me espresso e che può additivamente far ritenere impropria l’attuale giurisprudenza del Consiglio di Stato, nasce da una recentissima ordinanza  (n°732 dell’11.12.2020) resa dal TAR della Calabria, Sezione distaccata di Reggio Calabria, la quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 92 del Decreto Legislativo 6.11.2011 n°159, per contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Carta, con il diritto al lavoro di cui all’articolo4 e con il diritto di difesa di cui all’articolo24, sempre della Costituzione.

Il prefato articolo 92 del Decreto Legislativo n°159/2011 infatti, a sentire per vero non improprio del predetto giudice a quo, genera una più che evidente disparità di trattamento tra i soggetti destinatari di misura di prevenzione e quelli attinti da provvedimento di interdittiva antimafia, laddove in quest’ultima materia esso preclude, all’autorità amministrativa irrogatrice il provvedimento (Prefetto) la possibilità di escludere – al contrario di quanto invece attribuisce all’AGO, ex articolo 67, 5°comma del D.lgs n°159/2011 – le decadenze ed i divieti previsti, nel caso non infrequente, di mancanza dei mezzi di sostentamento materiali ed economici all’interessato destinatario del provvedimento di interdittiva generica, dal momento che ciò concretizza appunto l’evidente ed irragionevole disparità denunciata con la prefata ordinanza.  

Alla luce delle prefate non secondarie considerazioni e della putroppo  draconiana chiusura operata sin quì dal G.A., con il granitico e monocorde indirizzo giurisprudenziale non condiviso, ritengo che al fine di affrontare e risolvere in termini di giustizia sostanziale la questione delle interdittive generiche e per riportare fuori dall’ombra in cui è caduto l’intero sottosistema della prevenzione, sia necessario, in sede legislativa, ridare forza e vigore al lineare meccanismo delle garanzie e dei diritti fondamentali indispensabili e propri di uno Stato di diritto.

In buona sostanza, occorre un mirato intervento legislativo che si proponga finalmente di abbandonare  l’idea del rigore destruente fin qui disegnato e di dar vita ad un quadro normativo funzionalmente più costruttivo in cui lo Stato non abbia la preoccupazione di bandire comunque le imprese che hanno subito (in forma soggiacente) tentativi occasionali di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, incidendo negativamente anche interessi di soggetti estranei irrazionalmente ed inopinatamente coinvolti.

Il principio di legalità sotanziale, infatti esprime un’esigenza del tutto opposta e diversa dall’ermeneusi sin qui seguita dal Consiglio di Stato. E ciò perché, se è vero che con disposizione legislativa appare logico e possibile predeterminare sia il reale potere della Amministrazione che la tipologia del relativo provvedimento che deve dalla stessa essere emanato, è altrettanto fondato il dato paradigmatico ed essenziale che di siffatto potere debbano, sempre ed in ogni caso, essere correttamente definiti caratteri e confini.

Quello che invece il G.A. ha fatto, è di aver determinato una situazione artificiale di prosopagnosia in cui non si riescono ad apprezzare differenze di sorta e tutto indistintamente si confonde nel marasma di quella indefinita nebulosità concettuale   ben rappresentata dall’antico ed icastico adagio secondo il quale al buio tutti i gatti sono bigi.  

[Intervento tenuto il 15 gennaio 2021 nella Tavola Rotonda condotta in modalità webinar, piattaforma Zoom, sul tema “Distorsione delle informative interdittive antimafia e scioglimento dei Comuni” organizzato dai Rotary club di Nicotera Medma, Gioia Tauro, Tropea e dall’Ordine degli Avvocati di Vibo Valentia, moderata da Giacomo Francesco Saccomanno (Giornalista e Responsabile Scientifico della Fondazione A. Scopelliti) e con la partecipazione di Luciano Maria Delfino (Componente del Comitato Scientifico di Filodiritto e Componente del Comitato Scientifico di Milano Vapore), di Nicola Durante (Presidente di Sezione del T.A.R. Campania – Salerno), di Gelsomina Silvia Vono (Senatore della Repubblica), di Francesco Neri (Consigliere della Corte di Appello di Roma) e di Cesare Mirabelli (Presidente Emerito della Corte Costituzionale)]

[1] Delfino L.M. “L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia” in Filodiritto editore, rivista on line www filo diritto.com, gennaio 2016; Delfino L.M. “Ancora qualche riflessione ermeneutica quanto meno di buon senso sull’abnorme potere discrezionale della P.A. procedente in tema di interdittive” in Filodiritto editore, rivista on line www filo diritto, com, ottobre 2016; Delfino L.M. “Lo scioglimento per mafia dei Consigli delle Amministrazioni Locali - (Il faut défendre les principes et les valeurs de l’Etat de droit)” in Filodiritto, rubrica “Officina giuridica delle libertà”, www.filodiritto.com, giugno 2019; Delfino L.M. “Eppur si muove: prove qualificate di erosione di un monolite illiberale che ….…. infiniti addusse lutti ai principi ed ai valori …… dello Stato di diritto” in Filodiritto, rubrica “Officina giuridica delle libertà”, aprile 2020;

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