Clandestini, affare di 'Ndrangheta: 67 arresti
di Aaron Pettinari - 4 febbraio 2010
Fonte:Antimafia2000.it
Reggio Calabria. Partire dall'India e dal Pakistan inseguendo un sogno. Coltivare dentro se la speranza di un futuro alimentata dalla falsa promessa di soldi e lavoro.
Un sogno realizzabile grazie ad un regolare permesso di soggiorno ottenuto solo dopo il versamento di una cifra variabile con tanto di tariffario: un visto per sei mesi costava 15 mila euro, per 11 mesi da 18 a 25 mila. Una grande truffa sviluppata ai danni della gente disperata (dalle conversazioni è emerso anche che gli immigrati si indebitavano in maniera notevole o vendevano i propri beni a fronte delle ingenti richieste di denaro) e controllata da un'organizzazione composta da indiani e pachistani in stretta collaborazione con le famiglie 'ndranghetiste.
E' un quadro agghiacciante quello che emerge dall’ inchiesta “Leone” condotta dalla Dda di Reggio Calabria e che ha permesso al gip, Gianluca Sarandrea, di emettere 67 ordinanze di custodia cautelare con l’accusa di associazione a delinquere di tipo mafioso, finalizzata allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Arresti eseguiti anche a Milano, Brescia, Crema, Piacenza, Macerata, Siena, Potenza e Avellino.
Negli ultimi anni sarebbe stata la mafia calabrese ad assumere il controllo di questo settore, riuscendo a produrre una nuova economia sul territorio, capace di fruttare oltre sei milioni di euro. Il sistema di pagamento messo a punto dall'organizzazione era piuttosto sofisticato, chiamato dagli inquirenti “Metodo hawala”, basato su circuiti bancari clandestini presenti in Africa, America latina e paesi arabi. Banche parallele dove il danaro circolava senza lasciare tracce e senza incorrere nei controlli dell’antiriciclaggio.
Il traffico di clandestini è così spiegato. I migranti indiani e pachistani erano costretti a versare denaro nelle mani dei caporali, spesso loro stessi concittadini, in cambio di falsi documenti che attestavano finti contratti d’assunzione in modo tale da garantire la permanenza sul territorio italiano.
Base logistica dell'organizzazione criminale era l’Alto Jonio reggino, feudo del clan Iamonte. Una famiglia storicamente legata al boss catanese Nitto Santapaola con il quale in passato ha gestito il traffico di armi e di eroina proveniente da Libano, Cipro e Tunisia. Poco più giù, nella Locride, la gestione di indiani e pachistani era affidata ad alcuni esponenti della famiglia Cordì, il clan coinvolto nell’assassinio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno. Dalle indagini condotte dalla polizia emerge che a curare i rapporti tra i clan era Singh Sher, un «capo» indiano di etnia Virk che nei Paesi asiatici controlla molte città. E' lui la figura centrale attorno alla quale ruota l’intera indagine della polizia di stato. Un sistema in cui mangiavano tutti: imprenditori, mafiosi, impiegati infedeli dell’ispettorato del lavoro, sindacalisti ed extracomunitari che gestivano i contatti con i connazionali.
Fondamentali per l'inchiesta, oltre alle intercettazioni, anche le rivelazioni del testimone di giustizia, e imprenditore agricolo, Saverio Foti.
E' stato lui a spiegare al pm Antonio De Bernardo come gli Iamonte speculavano sulla disperazione delle centinaia di indiani e pakistani.
«Ricordo che a partire dal 2003 Antonino Iamonte pretendeva da me alcune centinaia di migliaia di euro – ha raccontato agli inquirenti - Dapprima chiese che io gli cedessi l’abitazione dove attualmente abitano i miei genitori, ma visto che non fu possibile mi disse che gli avrei comunque potuto dare alcuni immobili di mia proprietà insistenti nella frazione Pentadattilo. Non concretizzandosi tale situazione mi indirizzò quindi nel discorso relativo all’immigrazione. Affinché io reperissi il denaro necessario a far fronte alle sue richieste, mi disse che rivolgendomi a dei soggetti di nazionalità indiana potevo favorire dietro compenso economico l’ingresso di loro connazionali... Mi spiegò che alcuni cittadini extracomunitari di nazionalità indiana offrivano agli imprenditori cospicue somme di denaro a condizione che questi ultimi si mostrassero disponibili ad assumere presso le rispettive aziende contingenti di lavoratori stranieri»
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