Libero Marino Mannoia, il boss che parlo' degli incontri tra Andreotti e Stefano Bontade di Maria Loi 11 febbraio 2010
Da antimafia2000.it si riporta
Palermo. Sarà presto un uomo libero il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia perché ha finito di scontare le condanne calcolate, attraverso il cosiddetto “cumulo” di pena.
Uomo d’onore della “famiglia” palermitana di Santa Maria di Gesù dal 1975, Francesco Marino Mannoia era un pericoloso killer al servizio di Stefano Bontade.
Grazie al suo legame di parentela con il boss Giuseppe Vernengo (del quale era genero) si dedica inizialmente al traffico dei tabacchi e poi a quello degli stupefacenti. Da Antonio Vernengo “U Dutturi” apprende le tecniche di raffinazione della morfina trasformandosi in un eccellente chimico.
Nel 1980, in seguito ad un’indagine bancaria condotta dal giudice Giovanni Falcone viene arrestato e condannato a cinque anni, (il massimo della pena allora prevista per un’associazione a delinquere) ma sconta tre anni prima di riuscire ad evadere, nel 1983, dalla prigione nella quale è detenuto.
Nel frattempo viene anche imputato nel primo maxi processo, in seguito alle accuse di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno e nuovamente arrestato il 21 gennaio del 1985 all’interno di un appartamento di Bagheria, messo a sua disposizione dal costruttore Mario Ingenio.
Si aprono così di nuovo per lui le porte del carcere. Ma continua a mantenere i rapporti con l’organizzazione grazie ai quotidiani legami all’interno del penitenziario con esponenti di vertice del sodalizio e ai resoconti del fratello Agostino. Salvatore Riina fa sparire quest’ultimo attraverso il metodo della lupara bianca nel 1989 perché ritenuto vicino a Vincenzo Puccio sospettato di avere aderito a un progetto di rivolta contro i corleonesi.
Mannoia capisce il segnale e decide di saltare il fosso.
L'8 ottobre 1989 inizia a collaborare con il giudice Giovanni Falcone. Quando i boss mafiosi apprendono la notizia, attraverso una vendetta trasversale, gli uccidono, a Bagheria, sua madre Leonarda, una zia Lucia e la sorella Vincenza.
Dal giugno del 1990 Mannoia viene sottoposto a programma di protezione negli Stati Uniti, grazie alla tutela del Marshall Service, e dà uno grandissimo contributo sui grandi traffici di droga fra l’Italia e gli Usa e accetta di collaborare con i magistrati di New York nel processo a John Gambino. Oltre a parlare delle responsabilità dell’allora presidente di Cassazione Corrado Carnevale nell’aggiustamento dei processi (assolto dall’accusa), le sue deposizioni vengono raccolte nell’ambito di un gran numero di processi, tra i quali quelli contro l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, l’ex ministro Calogero Mannino e soprattutto il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Nonostante i numerosi attacchi la Cassazione ha creduto alla ricostruzione del pentito che Andreotti avesse incontrato per ben due volte il boss Stefano Bontade nel 1979. Nel primo dei due appuntamenti, che si tenne in una riserva di caccia di proprietà dei Costanzo, si discusse dell’allora presidente della Regione Piersanti Mattarella perché al capomafia non piacevano le sue denunce, avvertendo Andreotti che l’aria doveva cambiare. Andreotti non si rivolse alle autorità competenti per comunicare la pericolosità della situazione e quando Mattarella fu ucciso l’on. Democristiano tornò in Sicilia. E di nuovo si incontrò con Bontade per chiedere conto di quella scelta, nell’intento “di recuperare il controllo sulla azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse”. A salvare il senatore Andreotti è stata infatti solo la prescrizione.
Francesco Marino Mannoia, è considerato uno dei più importanti pentiti della storia di Cosa Nostra insieme a Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.
Mannoia: «Continuate a proteggermi»
Il pentito storico di Cosa Nostra rinuncia alla liquidazione e chiede allo Stato di non farlo uscire dal programma di protezione
di Monica Centofante
Non ha mai chiesto un milione di euro e non intende uscire dal programma di protezione.
Francesco Marino Mannoia, pentito storico di Cosa Nostra che affidò le sue confidenze al giudice Giovanni Falcone, ha preso carta e penna e ha scritto al suo legale di Palermo. Rispondendo così alle notizie anticipate sul Giornale di Sicilia il 26 maggio scorso e subito riprese da altri quotidiani, secondo cui il collaboratore di giustizia avrebbe preteso di terminare il suo “servizio” allo Stato con una buonuscita milionaria e un’identità nuova di zecca. Per rifarsi una vita, probabilmente nel suo nuovo Paese: gli Stati Uniti, dove dal 1990 vive protetto dalla tutela del Marshall Service.
<<Non appena mi faranno uscire dal programma di protezione – si legge nella lettera indirizzata all’avvocato Carlo Fabbri – lascio gli Usa e prendo un aereo per tornare in Italia dove riprenderò a delinquere. Lo giuro sui miei figli. Non vorrei, ma non posso fare altro>>.
Parole pesanti che giungono agli organi di stampa nel pieno dell’infuocata polemica scoppiata all’indomani della notizia sull’importo della generosa “liquidazione” alla quale hanno risposto con sdegno i familiari delle vittime di mafia. Tra questi Michele Costa, figlio del procuratore assassinato nel 1980 (<<Mio padre è stato dimenticato. Mannoia no.>>) e Roberto Saetta, figlio del giudice Antonino e fratello di Stefano, uccisi nel settembre del 1988 (<<Lo strumento dei collaboratori è importante ma certi aspetti della legislazione andrebbero rivisti>>).
Parole pesanti che l’avvocato Carlo Fabbri motiva con lo <<sfogo>> di <<un uomo esasperato>> consapevole che <<se privato del programma di protezione, potrebbe tornare in Italia dagli Stati Uniti. In questo caso, non avendo un lavoro, rischierebbe di tornare a delinquere>>. Ma anche parole che puntano a frenare gli attacchi subiti. Perché Marino Mannoia quel milione di euro non li avrebbe mai pretesi. Tutt’altro. Non sarebbe neppure stato informato della pratica per la sua fuoriuscita dal programma di protezione e per la cosiddetta “capitalizzazione” della sua collaborazione. Al mio cliente, spiega l’avv. Fabbri, <<fu fatta firmare l’accettazione del programma in cui c’è una clausola che parla della possibilità, e non dell’obbligo, di chiederla>>.
Tanto più che quando entrò a far parte del programma di protezione la legge non prevedeva la fuoriuscita di un collaboratore a fronte di una liquidazione, che arrivò in seguito alla prima riforma della legge e che fu considerata dai pentiti una sorta di tradimento.
Ma a riportare i termini della questione entro i giusti parametri è l’ex sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, che per calmare gli animi parte dall’inizio. E spiega che con delibera del 6 ottobre 2005 la Commissione centrale per i collaboratori di giustizia del Viminale <<nel prorogare il programma di protezione per Mannoia e per i suoi familiari fino al 31 dicembre 2006, ha richiesto alla Dda di Palermo e alla Dna di far conoscere se sussistono ancora i presupposti che determinarono l’adozione del provvedimento di ammissione al programma, tenuto conto del notevole lasso di tempo trascorso>>.
Un’istanza alla quale i magistrati della Procura palermitana non hanno ancora risposto, impegnati nel passare al setaccio le vicende giudiziarie legate all’ex boss di Santa Maria del Gesù. Il loro compito è infatti quello di segnalare tutti i processi in corso nei quali il pentito figura come imputato oltre alle testimonianze rese e da rendere e alla valutazione del suo contributo espressa nelle sentenze. Al termine di tale lavoro dovranno esprimere un proprio parere, che assieme a quello della Dna sarà successivamente valutato dalla Commissione centrale.
Per il momento, dunque, Francesco Marino Mannoia è ancora a tutti gli effetti sotto tutela e se anche il prossimo 31 dicembre lo Stato dovesse decidere di liquidarlo la somma che gli spetterebbe potrebbe non arrivare neppure alla metà della cifra oggetto di contestazioni.
Placate in parte anche le altre critiche mosse contro l’ex uomo d’onore di Cosa Nostra. Trascese, come spesso avviene quando si tocca il nervo scoperto della gestione dei pentiti di mafia in Italia, nelle accuse sugli stipendi stratosferici concessi dallo Stato e sulle ville immerse nel verde di zone residenziali nelle quali i pentiti di turno vivrebbero con le proprie famiglie.
9.000 dollari al mese, ha detto lo stesso Mannoia all’avv. Fabbri, potrebbero sembrare una cifra elevata, ma <<vivo in un Paese in cui il costo della vita è di gran lunga superiore a quello italiano. Mantengo cinque persone: due figli che vanno a scuola e mio padre, anziano e ammalato. Pago un affitto mensile di 2.500 dollari e l’assicurazione sanitaria, che in America costa circa 2.000 dollari al mese. I soldi mi bastano appena. Non vivo in una villa lussuosa con giardino – ha concluso– né ho un’auto di grossa cilindrata>>.
In quanto all'eventualità di rimanere negli Stati Uniti a seguito della sua possibile fuoriuscita dal programma appare certo che le autorità federali hanno respinto più di una volta la sua richiesta di ottenere la cittadinanza americana per il suo background <<violento>> e per i <<numerosi omicidi>> commessi. Pur rinnovando la protezione per lui e per i suoi familiari, per il contributo offerto ai giudici di New York nei processi ai mafiosi italo-americani, gli Usa non vogliono infatti accettarlo come proprio cittadino, rinnovandogli però, solo su sua richiesta, uno speciale permesso di residenza annuale.
La fuoriuscita dal programma di protezione significherebbe per lui quindi un biglietto di sola andata per l’Italia, ma è certo, incalza il suo legale, che la cosa appare alquanto pericolosa poiché <<non è affatto cessata la situazione di rischio che lo riguarda>>.
Collaboratore dal 1989 Francesco Marino Mannoia, alias “Mozzarella”, è infatti uno dei più importanti pentiti della storia di Cosa Nostra insieme a Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Che con la loro decisione di passare dalla parte della giustizia avevano impresso un nuovo corso all’interno dell’organizzazione mafiosa favorendo il fenomeno del pentitismo fra quanti non condividevano più la strategia e le scelte del sodalizio criminale.
Fu soprattutto grazie alla loro collaborazione con il pool antimafia dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che il 30 gennaio del 1992 fu possibile registrare la prima e più bruciante sconfitta per l’organizzazione. Quando la Cassazione, per la prima volta nella storia, condannò all’ergastolo numerosi mafiosi riconoscendo il carattere unitario e verticistico di Cosa Nostra e la riconducibilità dei cosiddetti omicidi eccellenti e degli altri comunque da considerarsi strategici, alla volontà della commissione provinciale di Palermo.
Per l’organizzazione malavitosa era la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova guerra nella quale i pentiti figuravano fra i più acerrimi nemici. E Francesco Marino Mannoia era, e ancora è, sicuramente tra i più pericolosi.
Dall’ala militare al livello politico
Profondamente addentrato nelle logiche dell’organizzazione mafiosa siciliana Marino Mannoia, genero del boss Giuseppe Vernengo, era dal 1975 uomo d’onore della “famiglia” palermitana di Santa Maria di Gesù, pericoloso killer al servizio di Stefano Bontade, all’epoca membro del triumvirato che reggeva le sorti dell’intera Cosa Nostra.
Grazie alla sua parentela con il Vernengo, contrabbandiere di grosso calibro, si dedica inizialmente al traffico dei tabacchi e poi a quello degli stupefacenti, divenendone uno dei principali protagonisti.
E apprendendo direttamente da Antonio Vernengo “U Dutturi” le tecniche di raffinazione della morfina trasformandosi in provetto chimico. Tale professione criminale gli permette di approfondire il livello delle proprie conoscenze in ordine alle vicende interne dell’intera organizzazione mafiosa (portandolo costantemente in contatto con numerosi membri di altre famiglie palermitane) e di sfuggire alla mattanza dei corleonesi di Riina e Provenzano che durante la guerra di mafia dei primi anni Ottanta lo risparmiano, nonostante la sua vicinanza a Stefano Bontade, proprio per quella sua abilità oltre che per il suo matrimonio di alto rango con Rosa Vernengo (dalla quale poi divorzierà).
Nel 1980, in seguito ad un’indagine bancaria condotta dal giudice Giovanni Falcone viene arrestato e condannato a cinque anni, il massimo della pena allora prevista per un’associazione a delinquere. Ne sconta tre prima di riuscire ad evadere, nel 1983, dalla prigione nella quale è detenuto.
Imputato nel frattempo anche nel primo maxi processo, in seguito alle accuse di Buscetta e Contorno, viene nuovamente arrestato il 21 gennaio del 1985 all’interno di un appartamento di Bagheria, messo a sua disposizione da un costruttore della zona, Mario Ingenio. E’ necessaria una lunga perquisizione prima che le forze dell’ordine riescano a trovarlo, nascosto in un vano appositamente ricavato nella parte posteriore di un armadio a muro.
Si aprono così di nuovo, per lui, le porte del carcere. Ma il suo stato di detenzione non compromette i suoi rapporti con l’organizzazione. Al contrario. Mozzarella si tiene sempre informato sui mutamenti intervenuti nelle dinamiche di Cosa Nostra grazie ai quotidiani rapporti all’interno del penitenziario con esponenti di vertice del sodalizio e ai dettagliati resoconti del fratello Agostino. Il quale, esponente di spicco e killer della famiglia mafiosa di Ciaculli, approfitta delle ore concesse per i colloqui per ragguagliarlo sui numerosi fatti di sangue demandati in quel periodo, nell’interesse di tutta l’associazione, proprio alla sua “famiglia”.
E’ il 1989 che segna per lui la svolta.
In quell’anno, infatti, Salvatore Riina, capo di Cosa Nostra, decreta la morte con lupara bianca del fratello Agostino. Perché ritenuto vicino a Vincenzo Puccio, soggetto al vertice della famiglia di Ciaculli, in quel momento agli arresti, che aveva dimostrato insofferenza verso la gestione che i capi facevano degli interessi di Cosa Nostra ed era per questo ritenuto l’ispiratore di un disegno di ribellione alla leadership dello stesso Riina e dei suoi più fedeli alleati.
Sarà proprio a seguito della scomparsa del fratello che Francesco Marino Mannoia maturerà l’idea di collaborare con la giustizia.
<<Nel 1989 – racconterà il giudice Giovanni Falcone a Marcelle Padovani – al Mannoia uccidono il fratello, Agostino, che adorava. Capisce che il suo spazio vitale nell’ambito di Cosa Nostra si sta restringendo. Perché o hanno ucciso suo fratello a torto – e deve chiederne conto e ragione -, oppure lo hanno ucciso a ragion veduta; in entrambi i casi significa che anch’egli sarà presto eliminato. Fa una lucida analisi della situazione e decide di collaborare>>. E così, nel settembre di quell’anno, continua Falcone, <<il vicequestore Gianni De Gennaro mi chiama per avere informazioni sull’attuale situazione giudiziaria di Francesco Marino Mannoia. Una donna, che si era qualificata come la sua compagna, era andata a trovarlo per dirgli che Mannoia era pronto a collaborare, ma che voleva avere a che fare solo con due persone: con lui e con Falcone dato che, diceva la donna, “non si fida di nessun altro”>>.
Le sue confessioni iniziano il successivo 8 ottobre e già nel mese di novembre l’associazione criminale gli invia il più tragico degli avvertimenti facendo uccidere a Bagheria sua madre, una zia e la sorella da un commando di cui faceva parte, tra gli altri, l’attuale collaboratore di giustizia Giovanni Drago. <<Il pentito – conclude il giudice Giovanni Falcone – reagisce da uomo e porta a termine le sue confessioni>>.
Si autoaccusa di numerosi omicidi, confessa i reati che gli vengono addebitati nel corso del maxi processo e fornisce un elevato numero di informazioni sulle dinamiche interne a Cosa Nostra e sui suoi membri. Rafforza così, in modo decisivo, il materiale probatorio a carico di numerosi imputati del “maxi” che in alcune parti appariva debole poiché fondato, per taluni fatti, sulle sole dichiarazioni di Tommaso Buscetta. Riferisce ancora, tra le altre cose, di avere saputo dal Puccio che il processo per l’omicidio del capitano Basile era stato aggiustato in sede di legittimità.
Nel giugno del 1990 viene sottoposto a programma di protezione negli Stati Uniti, dove fornisce uno straordinario contributo di conoscenze sui grandi traffici di droga fra l’Italia e gli Usa e dove accetta di collaborare con i magistrati di New York nel processo a John Gambino.
E’ però nel 1992, a seguito delle stragi di Capaci e Via d’Amelio, che decide di riferire nella sua totalità quanto appreso e vissuto nel corso dei tanti anni trascorsi all’interno dell’organizzazione mafiosa. Soffermandosi sui rapporti tra mafia e mondo delle istituzioni e oltrepassando quella soglia che non avevano mai voluto varcare né lui né Tommaso Buscetta nel timore che dichiarazioni troppo compromettenti potessero mettere in dubbio la loro credibilità.
Riferisce così quanto saputo dal fratello Agostino sui numerosi omicidi compiuti sino al 1988 dal “gruppo di fuoco” di Ciaculli e riprendendo il discorso sull’aggiustamento dei processi afferma le responsabilità dell’allora presidente di Cassazione Corrado Carnevale (assolto da questa accusa) e inizia a parlare di numerosi altri rappresentanti del mondo politico istituzionale.
Tanto che le sue deposizioni verranno raccolte nell’ambito di un gran numero di processi, tra i quali quelli contro dell’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, l’ex ministro Calogero Mannino e soprattutto il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti. E’ in occasione di quest’ultimo che viene ritenuto credibile fino al terzo grado di giudizio. Nonostante i numerosi attacchi da più parti subiti, la Cassazione darà infatti ragione alla ricostruzione del pentito circa due incontri, avvenuti in Sicilia nel 1979, tra il senatore a vita e il boss Stefano Bontade, i cugini Salvo, l’on. Lima e altri. Nel corso del primo dei due appuntamenti, che si tenne in una riserva di caccia di proprietà dei Costanzo, si discusse dell’allora presidente della Regione Piersanti Mattarella. Al capomafia non piacevano le sue denunce e avvertì Andreotti che l’aria doveva cambiare. Andreotti non si rivolse alle autorità competenti per comunicare la pericolosità della situazione, ma nel tentativo di assumere una sorta di controllo, si legge nella durissima sentenza, cercò con loro il dialogo “palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni”. Quando Mattarella fu ucciso l’on. Democristiano tornò in Sicilia. E di nuovo si incontrò con Bontade per chiedere conto di quella scelta, nell’intento “di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sulla azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse”.
Questo fatti sono ormai ritenuti accertati. Ed è la prima volta nella storia che il racconto di un collaboratore di giustizia prova in modo definitivo i rapporti tra un alto esponente del mondo politico e la mafia siciliana.
Un evento senza precedenti che avrebbe potuto aprire le porte del carcere ad uno dei massimi rappresentanti della storia politica italiana. A salvare il senatore Andreotti è stata infatti solo la prescrizione.