23 novembre 2024
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La verità di Mori e Ciancimino Jr

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Da Antimafia2000.it si riporta:

La verita' di Mori e l'inquietante domanda: Borsellino sapeva?


di Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo - 2 marzo 2010

Ci prova in ogni modo l’avvocato del generale Mori, Piero Milio, a innervosire Massimo Ciancimino e a tentare di farlo cadere in contraddizione. Comincia con la

 

singolare pretesa che il teste si rivolga esclusivamente alla Corte e che quindi non lo guardi in faccia quando risponde alle sue domande.

E alla richiesta di chiarimento da parte del pubblico ministero Milio lancia il suo primo coup de théâtre: perché se no gli vengono suggerite le risposte!

Il pubblico ministero Nino Di Matteo non asseconda il giochetto e chiede che siano acquisiti gli atti per individuare eventuali irregolarità nel processo. Solo col saggio intervento del presidente Fontana si evita l’effetto polemico che dovrebbe snervare il teste. Che invece in tutta tranquillità riesce a chiarire le presunte contestazioni che l’avvocato ha cercato di sollevare per tutta la durata del controesame.

In effetti le domande dell’avvocato si limitano a lunghe letture di parti di interrogatorio rese nel corso di tutto il percorso collaborativo di Massimo Ciancimino che come è stato evidenziato più volte anche nel corso delle scorse udienze si è svolto in progress con reticenze iniziali colmate poi velocemente con la produzione di documenti.

La ragione di un contro interrogatorio così blando da parte del difensore si capisce solo più tardi quando, dopo che il Presidente del tribunale con domande, queste sì, chiare e precise approfondisce alcuni aspetti poco chiari della lunga deposizione di Ciancimino, la parola è passata al generale Mori.

La vera difesa in effetti è affidata allo stesso imputato cui fanno gioco le confuse contestazioni dell’avvocato Milio che piano piano acquistano ragion d’essere.

Come annunciato già dalle scorse udienze il generale Mori ha dato lettura per più di un’ora e mezza di un memoriale (prodotto in una ventina di copie consegnate poi alla stampa) che più di una dichiarazione spontanea ha tutte le caratteristiche di una arringa finale.

Secondo quanto perentoriamente sostenuto dall’alto ufficiale dell’Arma Massimo Ciancimino avrebbe costruito nel corso degli anni, in seguito alle diverse risultanze processuali inerenti i fatti in oggetto e alle varie interpretazioni giornalistiche, una versione dei fatti affine all’impianto accusatorio sostenuto dai magistrati al fine di ottenere benefici in particolare nell’ambito del processo che l’ha visto condannato in appello a 3 anni e mezzo di reclusione per riciclaggio.

Per smontare le dichiarazioni del figlio maschio più piccolo di Don Vito, il generale Mori ha esaminato punto per punto le parti più rilevanti fornendo per ognuna una sua spiegazione.

Innanzitutto la trattativa. Come già sostenuto anche in altre sedi il generale rifiuta categoricamente di connotare quale sorta di negoziazione il dialogo con Don Vito che era e resta invece, a suo modo di vedere, lo sfruttamento di una normale fonte confidenziale seppure di alto livello. E di particolare interesse perché il vecchio sindaco, in quel preciso momento, siamo nel 92, era in una posizione debole in quanto rischiava ulteriori provvedimenti giudiziari. Su questa base e al solo scopo di farlo collaborare per ottenere informazioni sui corleonesi alla testa di Cosa Nostra era stato avviato il colloquio.

A conforto della sua versione Mori richiama più volte lo stesso Ciancimino Vito rileggendo sia le dichiarazioni che questi rese alla procura di Palermo, ai pm Caselli e Ingroia, nel gennaio del 1993 sia quanto da lui scritto nell’ormai celebre abbozzo di libro dal titolo: Le mafie.

Mori intende dimostrare così che don Vito non avanzò mai nessuna ricostruzione dei fatti diversa da quella resa pubblicamente sia nell’immediatezza degli avvenimenti sia in epoca molto successiva quando risentito dai magistrati di altre procure volle confermare quanto già dichiarato. Non lo avrebbe fatto, deduce Mori, se, come invece sostiene il figlio, si fosse sentito tradito e abbandonato, anche dai carabinieri e quindi avrebbe potuto vendicarsi in ogni momento riferendo un’altra verità.

Massimo Ciancimino ha invece dichiarato che il padre gli disse che quanto scritto in quel testo era una versione concordata con i due ufficiali del Ros allo scopo di tutelare i propri figli dal coinvolgimento in una trattativa che aveva comunque portato alla cattura del capo di Cosa Nostra. Precauzione che avrebbe un suo valore anche al di là di un qualsivoglia tradimento.

Chi dei due abbia ragione dovranno poi sancirlo i giudici. Entrambe le valutazioni potrebbero avere una loro fondatezza e una potrebbe prevalere sull’altra solo in presenza di ulteriori riscontri.

Quanto alla datazione degli incontri, altra questione spinosa, il generale ha anticipato in aula alcuni brani della deposizione resa dalla dottoressa Liliana Ferraro ai magistrati di Palermo e Caltanissetta in data 14 ottobre 2009, depositata agli atti ma non ancora ribadita in dibattimento.

Nella parte letta e sottolineata dal generale a suffragio della sua tesi la dottoressa Ferraro, che sostituì Falcone al Dipartimento degli Affari Penali, racconta di aver incontrato il capitano De Donno attorno al trigesimo della strage di Capaci, quindi il 23 giugno 1992 e nell’ambito di un discorso più ampio circa il grande senso di smarrimento investigativo dopo la perdita di Falcone questi le disse:

“… che era venuto il momento di provare tutte le strade e che, essendo Vito Ciancimino un personaggio di spessore, avevano pensato di sondare la possibilità che lo stesso iniziasse un rapporto di collaborazione. Mi disse anche che aveva preso contatti col figlio Massimo e che attraverso di questi pensava di agganciare o aveva già agganciato, non ricordo bene, Vito Ciancimino”.

Secondo Mori tale deposizione proverebbe senza ulteriore indugio che in quella data (fine giugno 92) “il cap. De Donno aveva preso contatto con il solo Massimo Ciancimino e si riprometteva di poterlo fare, in prosecuzione, con il padre. Ne consegue – scrive il generale nel memoriale – che le affermazioni di Massimo Ciancimino, il quale sostiene che, prima del 29 giugno 1992, il padre aveva parlato già due o tre volte con il col. Mori, sono false e falsa, quindi, è tutta la ricostruzione della vicenda”.

Una conclusione forse un po’ troppo netta e azzardata dato che la dott.ssa Ferraro afferma: “…pensava di agganciare o aveva già agganciato, non ricordo bene, Vito Ciancimino”. Difficilmente un “non ricordo bene” può considerarsi una prova schiacciante contro una testimonianza diretta e non de relato, tuttavia anche in questo caso la verità potrà essere ristabilita nella sua interezza solo da nuovi auspicabili elementi e dalla valutazione della Corte.

Quel che invece il generale Mori non evidenzia è proprio la novità più importante dell’udienza di oggi: la conferma a verbale della dottoressa Ferraro che il giudice Borsellino era al corrente di questo tentativo di dialogo dei carabinieri con Vito Ciancimino.

Evento che non può aver lasciato indifferente il magistrato dato che, come ha ricordato lo stesso Mori, una delle piste più importanti perseguite dal giudice alla ricerca degli assassini dell’amico Falcone era proprio quella degli appalti e Vito Ciancimino era stato, si legge sempre nel memoriale, “il dominus che aveva rivestito e che ancora in parte rivestiva nel condizionamento degli appalti pubblici e più in generale la sua funzione di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e l’ambito mafioso”.

Perché non lo informarono, come hanno sempre sostenuto i due ufficiali? Perché non si consultarono con la massima autorità in materia di contrasto a Cosa Nostra: Paolo Borsellino, per interagire con una fonte “problematica” che rappresentava “indubbi pericoli, anche personali”?

Perché tacergli un indizio di indagine così importante? Ed è possibile che Borsellino con il ticchettio delle lancette che scandivano le ultime ore della sua vita nelle orecchie non abbia chiesto conto di un dato così rilevante riferitogli da un esponente istituzionale così illustre?

Visto che siamo ancora nel campo delle ipotesi non è assurdo presupporre che se a Vito Ciancimino interessava tutelare i figli per non coinvolgerli nella cattura di Riina, ai carabinieri interessa invece allontanare da quei colloqui la data della strage di via D’Amelio visto che già la corte di Firenze nella parte oggi non rammentata dal puntuale memoriale di Mori aveva già individuato una responsabilità morale dei carabinieri nell’aver cercato un dialogo che nella mente di Riina era risuonato come un pericoloso avallo.

“…Sotto questi aspetti vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era

idonea a portare vantaggi all’organizzazione”. (pag. 1585)

Ma di questo dettaglio così prorompente e forse cruciale per scoprire tutto quanto ancora non sappiamo della strage di via D’ Amelio nessuno avrebbe mai parlato se non lo avesse fatto Massimo Ciancimino.

E’ presto per liquidarlo come un furbo approfittatore, la partita sul punto è tutt’altro che chiusa.


Ciancimino? Per la Corte di Palermo un giudizio di alta credibilità

di Silvia Cordella - 1° marzo 2010

Lo sgomento del precipizio infinito in cui molte coscienze sono cadute restituisce l’immagine di un’antica era in cui ad essere diversa forse è solo l’ambientazione. Per il resto tutto è rimasto pressoché immutato: le caste, la dilagante povertà, l’imbarbarimento delle coscienze e soprattutto la miseria dell’animo umano assuefatto dall’ego e dall’avidità personale.

In tutti questi anni di sviluppo scientifico abbiamo creduto di raggiungere grandi traguardi di democrazia e civiltà, oggi possiamo dire che l’evoluzione non è data dagli strumenti che la tecnologia concede ma dalla propensione personale ad essere migliori, rendendo alla società il “genio” che ogni individuo possiede. È l’abc della crescita e della convivenza sociale che è bene ricordare per riconsegnare a ogni valore il suo giusto significato. Un significato che forse mai come in questo momento ha perduto l’orientamento, stravolto nella sua storica essenza dal delirio dei tanti Cesare, Nerone, Erode… Menti turbate dalla loro stessa esaltazione che per sedere eternamente sul trono del potere offrono le loro anime al primo “diavolo” di turno. E oggi se questa Italia fosse Gerusalemme potremmo dire che la strage degli innocenti non è ancora finita e che troppi “profeti”, laici o religiosi che siano, vengono ancora lapidati. Forse però qualcosa è cambiato, una parte di quel popolo che gridava “Barabba” oggi è in piazza a chiedere giustizia in un impeto di ribellione che nasce dal desiderio di libertà. Da anni all’asta c’è un principio sacrosanto: “La Legge è uguale per tutti” che a ogni cambio di guardia lo Stato vende al miglior offerente. Un principio che ha segnato nel bene e nel male la storia di questo nostro disgraziato Paese che fra lutti, stragi, inganni e speranze si trova dopo diciotto anni ancora una volta ad un bivio fra un nuovo compromesso politico, sulla via dell’insabbiamento definitivo, e l’occasione di accettare verità pesanti che destabilizzerebbero i pilastri fondamentali di un organismo istituzionale intaccato fino ai massimi livelli dai parassiti del sistema criminale e della corruzione. Un cammino indubbiamente in salita che ridarebbe nel secondo caso la forza a quella parte di nazione onesta schiacciata dai devastanti effetti delle complicità politico – mafiose.

Le stragi del ‘92

Per questo il lavoro delle procure antimafia di Palermo e Caltanissetta, impegnate sulla questione della cosiddetta “trattativa” l’una e la pista sui mandanti esterni della strage di via d’Amelio l’altra, è così importante. E’ necessario ''capire quale rapporto c'e'stato tra la nascente Seconda Repubblica e le stragi del 1993 – ha ricordato ieri il Senatore del Pd Giuseppe Lumia - e capire, oltre al ruolo di Dell'Utri, quali sono stati i meccanismi che intrecciarono la politica di quegli anni con i nuovi volti di cosa nostra''. Inoltre, ha detto ancora l’ex vicepresidente della commissione antimafia, “e' importante che oltre alla magistratura ''che non va imbavagliata ne' aggredita, la politica nella commissione parlamentare sia disposta a andare avanti pronta ad accettare le piu' amare verita' e le conseguenze delle cosiddette 'responsabilita'politiche''. È chiaro che gli attacchi sistematici alla magistratura e in particolare ai pm del processo Mori che per primi hanno raccolto le delicate dichiarazioni di Massimo Ciancimino, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, sono un segnale da parte del governo di delegittimazioni preventive e strumentali. Puntare il dito contro questi due veri servitori dello Stato, quello in cui tanti cittadini onesti si identificano e quello per cui tanti altri hanno dato la vita, vuol dire esporli alla vendetta omicida della criminalità organizzata, sempre pronta a servire il “padrone” per ricevere il proprio osso in cambio. Le rivelazioni di Massimo Ciancimino, che che se ne dica, fanno paura perché sono ritenute veritiere anche da chi lo attacca. Ma probabilmente a preoccupare maggiormente costoro è il fatto che chi lo sta analizzando, verificando e riscontrando, non è ricattabile.

Ciancimino: 1° certificato di attendibilità

E nonostante il Senatore Dell’Utri si spertichi in giudizi contro l’attendibilità del dichiarante, appellandosi a un verbale di Ciancimino definito “contradditorio”, per via di alcune iniziali reticenze del figlio di don Vito, a suo dire provocate dal timore di “entrare in un gioco più grande di lui”, c'è una sentenza in cui il figlio dell’ex sindaco di Palermo è stato ritenuto altamente attendibile dalla Corte che ha condannato lo scorso luglio a 10 anni e 8 mesi per associazione mafiosa l’ex deputato siciliano di Forza Italia Giovanni Mercadante. Un medico tra i più rinomati e conosciuti a Palermo, primario della radiologia del centro tumori dell’ospedale Civico e membro della più ristretta cerchia di consigliori di Bernardo Provenzano insieme a Pino Lipari e Tommaso Cannella. Massimo Ciancimino ha aiutato la Corte a ricostruire con puntualità e coerenza i passaggi salienti di un conflitto sorto proprio fra i due, costituendo un riscontro formidabile a due collaboratori di giustizia del calibro di Angelo Siino e Antonino Giuffrè, entrambi già ritenuti ampiamente credibili dai Tribunali di mezza Italia. Anche in questo caso il testimone di casa Ciancimino ha ricostruito il perverso sistema di frequentazioni, alleanze ed accordi politico-istituzionali che ha fatto di Riina, Liggio e Provenzano un centro di potere capace di condizionare la storia politico-sociale ed economica della Sicilia, e in parte della Repubblica, dagli anni Settanta fino ad oggi. Una straordinaria corrispondenza di fatti che i giudici hanno molto apprezzato e che in parte può essere ritrovata negli interrogatori del processo Mori, l’ex numero uno del Sisde sotto accusa per la mancata cattura di Provenzano nel ‘95. Un procedimento che riprenderà il prossimo martedi 2 marzo e che vedrà lo stesso Ciancimino impugnare la sua causa di verità ereditata pesantemente dal padre, nel controinterrogatorio della difesa. Con la prospettiva di spiegare anche al processo contro il Senatore Dell’Utri, per la quale la corte dovrà esprimersi sulla sua ammissione, i legami economici che negli anni ’70 e ’80 avrebbero indissolubilmente unito in un vincolo di reciproco scambio, interessi mafiosi e società operanti nella costruzione di Milano 2. Verità pesanti che non possono più essere imbavagliate e che una grande parte d’Italia, quella che della piazza ha smesso di gridare “Barabba”, è già pronta ad ascoltare.

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