Dall’Unità.it si riporta:
Sono Cristina: faccio la puttana Il testo che fa infuriare il Premier
"Cristina" è un capitolo tratto dal libro "Malamore, esercizi di resistenza al dolore" di Concita De Gregorio, pubblicato due anni fa, nel 2008 (Mondadori). L'intervista a Cristina è stata raccolta nell'autunno 2007. Guarda il Ns video.
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- Cristina -
L’annuncio sul giornale dice “E tu cosa faresti con me?”. Poi avvisa: parking interno con accesso diretto al piano. Discrezione assoluta. Entri in macchina e sali direttamente in camera. Cristina ti aspetta. Il posto è un palazzo di sei piani vetro e acciaio, zona centrale, piante ricadenti ai balconi: gerani e edere molto ben curati, si vede che qualcuno se ne occupa. Quinto piano, sul campanello accanto alla porta c’è scritto “Centro servizi”. Dentro sembra uno studio medico solo che le pareti e gli arredi anziché grigi e bianchi sono gialli, rosa e arancio. India, colori del sole, alba e tramonto. Per il resto come dal dentista, dal ginecologo. Tavolino con riviste di turismo, piante da appartamento, distributore di acqua con bicchieri di carta: fredda o temperatura ambiente, l’acqua, si può scegliere. Segretaria all’ingresso, coda di cavallo golfino abbottonato e pantaloni: prego, si accomodi, la chiamo io. In sala d’attesa nessuno. E’ quasi l’ora. Qualcuno esce, infatti: voce di uomo, poche parole, rumore della porta che si chiude. Ancora cinque minuti, pochi – penso – per rimettere in ordine la stanza.
Cristina, poi. 28 anni, bruna, magra, alta. Pochissimo trucco, capelli lisci e corti con la riga da un lato. Occhi scuri, pelle chiara. Bel sorriso, camicia bianca e gonna blu, stretta di mano breve e formale. Una ragazza da metropolitana, da motorino, da aula magna dell’università. Nella stanza c’è un letto molto grande, un armadio Ikea, due poltrone e un tavolino con una bottiglia d’acqua, un poster di una spiaggia caraibica con due corpi nudi sul bagnasciuga. La cornice è arancione e anche tutto il resto, mi pare: i cuscini, il copriletto, le tende. C’è odore di mangiafumo al sandalo misto a dopobarba. Candele e colonia, forse. Misto, comunque.
“Amo il mio lavoro, voi non dite così? Lo faccio volentieri, mi piace. Io glielo racconto, certo, ma tanto vedrà che poi non lo scrive. Le puttane vanno compatite perché poverette sono costrette dalla povertà dal degrado dalla necessità e se lo fanno è colpa dei papponi che le sfruttano e degli uomini che le pagano, difatti loro non sono colpevoli, per la legge: sono colpevoli gli sfruttatori e in qualche caso in qualche paese i clienti. Loro sono vittime, se potessero scegliere farebbero certamente le insegnanti o le brave madri di famiglia, no?, vorrebbero una bella cucina un salotto col divano a elle un buon marito che torna a casa la sera e le bacia dicendo ciao amore come va. Le cassiere al supermercato, come faceva mia madre, anche. La logica è questa, fa comodo pensare così. Invece no, non è vero. Io faccio la puttana: non sono una puttana, è diverso. Lo faccio perché rende molto e costa poco, lo faccio part time solo la mattina, il pomeriggio vado in giro sto col mio ragazzo se lui è libero, la sera faccio la babysitter a due bambine, ogni tanto, due bimbe bellissime gli riguardo i compiti e gli leggo i libri e le metto a letto che la mamma non può, fa l’avvocato, torna tardi.
Lo faccio perché mi sento di dare qualcosa a qualcuno che ha bisogno, anche, ci crede? È così. Non voglio fare la parte dell’assistente sociale della crocerossina del medico umanitario, ci mancherebbe, anche se so di cosa parlo perché da ragazza io poi quella cosa lì l’ho fatta, sono andata a vent’anni nella ex Jugoslavia in un campo di una Ong a fare la volontaria, un’estate l’ho fatto. Ma questo non c’entra. Dico che gli uomini che vengono qui io li vedo, ci passo il tempo, vedo le loro pance gonfie i denti storti, le cravattone che gli servono a fare finta di essere importanti, le scarpe quadrate che mi fanno pena. Nei vecchi vedo la pelle vizza e il pisello moscio, la loro vergogna e la loro ostinazione a dimostrare che ce la fanno ancora, nei giovani vedo la maschera che si mettono e dietro tutte le paure.
Ci sono quelli che vogliono che ti gli dica solo di no, ce n’è uno che viene qui tutti i martedì vuole che io lo respinga, vuole che gli dica scusa ma proprio non posso ho i minuti contati ho altro da fare, vuole che gli dica: ho due minuti, conto fino a 120 e poi te ne vai. Mi metto davvero a contare, quando sono verso 30-35 gli viene duro, io conto gli dico 90 il tempo sta per scadere e lui lo mette dentro, gli dico 110 e lui spinge, corre, sente che non ha più tempo, che fra dieci secondi mi toglierò da lì e me ne andrò. Gode così. A volte ci riesce, non sempre. Poveretto. Penso sempre chissà cosa gli hanno fatto da piccolo. Chissà chi è che se ne è andato e non lo ha voluto. Torna in un posto della sua memoria, da qualcuno che non lo vuole, questo penso. Lo aiuto. Poi certo dopo si vergogna, mi tratta freddamente, a volte male: sono il suo imbarazzante testimone. Poveretto.
Ce n’è uno sui cinquanta che mi vuole legare, le mani e i piedi, di schiena carponi. Se gli dico sì legami ti stavo aspettando non voglio altro lui si immalinconisce e non lo fa. Una volta mi ha raccontato di sua moglie che non lo vede, lui dice, lo guarda ma non lo vede, non gli parla. La ama: non può fare a meno di lei della sua indifferenza. “Se resta con me vuol dire che mi ama anche lei”, dice. Lo deduce dall’inerzia. Allora gli dico no ti prego non mi legare stamattina facciamolo guardandoci negli occhi e lui è felice, mi sussurra no puttana girati, mi lega finge di violentarmi e sta bene un quarto d’ora. E’ chiarissimo, quando fai questo lavoro, che quello che loro vogliono è che tu faccia finta che non ti facciano schifo: che tu non veda i loro abissi, le loro carie, i loro segreti di cui non parlano con nessuno e che forse nemmeno si dicono mai con se stessi, anzi, al contrario, hanno bisogno che tu non mostri nausea del loro cattivo alito e dei loro odori, le loro sporcizie nascoste nelle pieghe della pelle sotto i vestiti grigi, le loro vite povere, da qualche parte definitivamente segnate. Poi ti dicono scusami, a volte, o povera bambina. Ma poveri sono loro, non io. Io apro le gambe, li tengo dentro, li accolgo. Sono loro che ne hanno bisogno, pagano per questo. Io ho imparato a controllare la nausea molto tempo fa, non la sento, non li sento dove fanno schifo.
Anzi. Prendo i loro soldi, tampono le loro falle, risarcisco le ferite. Non è che sia sempre una passeggiata, certo. Certi giorni non ne ho voglia. Quelli che mi dicono “povera ragazza lo fai per bisogno lo fai perché c’è gente come me che ti costringe, avresti diritto a un lavoro normale” mi fanno proprio incazzare. Questo è un lavoro normale. E’ un lavoro necessario, perché così tutti possono continuare a dare gloria alle loro famiglie unite e solidali e a sopportare le loro miserie. E’ un servizio. Mia madre faceva la cassiera, gliel’ho detto. Le faceva schifo. Si alzava la mattina e diceva che schifo di lavoro, poi ci andava. Avrebbe voluto scrivere favole per bambini, magari, o suonare il flauto. Non lo so. Avrebbe voluto un’altra vita, ha avuto quella. Nessuno lavorerebbe se non ne avesse bisogno: con l’eccezione dei missionari e dei filantropi, certo.
Io ho studiato per fare l’antropologa. Buoni voti, professori entusiasti. I miei felici di una figlia laureata. Sono andata a fare la volontaria dove c’era bisogno, ho visto il mondo. Poi sono tornata qui e tutto quello che ho trovato è stato un lavoro in un negozio di biancheria intima. Seicento euro al mese contratto a progetto. Il mio ragazzo è architetto, lavora in uno studio internazionale, viaggia molto. Un giorno a casa di un amico ci siamo messi a scherzare, abbiamo guardato certi siti internet, c’erano gli annunci, le offerte: vergine offre per mille euro il piacere di essere presa. Vergine? Ridevamo. Dove sono le vergini? Il piacere di essere presa? Ma come parlano? Poi la sera ci ho pensato, e il giorno dopo anche, e tutta la settimana ancora: mille euro, quanto durerà? Al massimo un’ora, accidenti. La prima volta è stato difficile. Ho dato appuntamento a un tizio via mail, poi non ci sono andata. Ho pensato: e se mi ammazza? Perché vede poi è questo il punto: non hai paura di lasciarli fare quello che vogliono fare. Hai paura che ti ammazzino, dopo: con un coltello, con un cuscino, che ti scaraventino giù da una macchina in un burrone, che ti mettano il nastro adesivo sulla bocca e ti buttino a marcire in cantina. Per non lasciare testimoni, è ovvio. Perché magari la loro debolezza è talmente profonda, talmente indicibile che non vogliono, dopo, che ne resti traccia. Per questo la cosa fondamentale è stare qui, protetti, sicuri, con una segretaria alla porta. Certo, la società non lo ammette. Sa quanti matrimoni non avrebbero senso se ci fosse un servizio legale e sicuro di servilismo a pagamento? Non voglio fare della sociologia a buon mercato. Dico solo che lo so per esperienza, per aver visto mia nonna mia madre le mie zie le mie amiche e me stessa. Il mio ragazzo quando è nervoso o stanco dice fammi un pompino. Dice: se tu me ne facessi uno al giorno sarei un’altra persona, poi ride. Però io lo so che è vero. Dice: è insopportabile tornare a casa e non trovare niente da mangiare. Vale per la biancheria, vale per le camicie stirate. Vale per la buona figura che gli fai fare con i colleghi di lavoro la sera se ti metti carina e hai le autoreggenti: caspita, pensano quelli, che fica. Caspita che uomo ad avere una così. Ecco, servizi. Tutti servizi che si potrebbero tranquillamente dare come una linea telefonica dedicata, una spesa a domicilio.
Però no, bisogna che lo facciano le mogli, le fidanzate: è il loro ruolo sociale. Le puttane servono a coprire le disfunzioni del sistema: le mogli alcolizzate e depresse, quelle che non ti rivolgono la parola se non per dirti dove hai messo le chiavi della macchina, quelle che non si tingono i capelli perché non gliene frega niente di piacerti, quelle che dormono fino a mezzogiorno poi vanno a fare shopping, quelle che si ammazzano di lavoro fuori tutto il giorno e la sera non sono carine, no, e meno che mai si fanno legare. Vabbè, comunque mi sa che ho parlato anche troppo e poi tanto lei queste cose di certo non le scrive. La nostra ora è finita, fra dieci minuti arriva il prossimo cliente: cento euro anche lui, certo, gli stessi che ha pagato lei per il mio tempo. Faccio cinquecento euro tutte le mattine, sì. Netti. Cinque giorni alla settimana, il week end raggiungo il mio ragazzo. Sono diecimila euro al mese. Pago un affitto, me ne restano ottomila. Qualche volta quando sono stanca di dire bugie penso ‘smetto’ ma ci ripenso sempre: dov’è un altro lavoro pagato così? Nemmeno un amministratore delegato. D’altra parte è giusto, è un guasto del sistema che ha il suo prezzo, alto. Per continuare a credere che è tutto a posto, va tutto bene, le puttane devono restare segrete, commiserate, compiante e ben pagate. Così la macchina funziona. Il lavoro i bambini le vacanze di Natale le solitudini la vecchiaia i tormenti segreti le ossessioni nascoste.
A me non costa niente, mi pare anche di fare una buona cosa. Sono utile al mantenimento dell’ingranaggio, aiuto persone in difficoltà, guadagno e non mi si vede. Non esisto. Le mogli le fidanzate lo sanno, certe volte, e va bene anche a loro: non esisto, appunto. Loro fanno finta di non sapere, i loro uomini fanno finta di non avere bisogno. Accesso diretto dal parcheggio. Mi sento fortissima, certe volte. Proprio wonder woman. Io li vedo, io li so. Io devo solo aprire le gambe, aprire la bocca, dire di si o di no quando lo chiedono e se no indovinare quello di cui hanno bisogno. Dov’è l’umiliazione? Che sciocchezza colossale. Umiliato è chi chiede o chi dà? Io sono più forte di loro, di tutti quanti loro messi insieme. Io li posso sopportare, disinnescare, placare, eccitare. Io gli servo, loro mi pagano. La padrona sono io”. 25 gennaio 2011