04 luglio 2024
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“IMPERARE SIBI MAXIMUM IMPERIUM EST” (Seneca) Che ne dite?

BREVI CENNI SUL MIO CONTO

Parlare di se stessi è una cosa molto difficile perché dovremmo essere nello stesso tempo, arbitri e giudici di Noi stessi. Quasi mai lo siamo.
Pecchiamo spesso di poca obiettività. In ogni caso ci proverò.
Mi chiamo
Fernando. Faccio l’Avvocato. Mi diletto di fotografia e Video editing. Mi piace giocare a Tennis e pratico il ballo (liscio) a livello agonistico facendo gare Regionali e Nazionali. In questo settore vanto un curriculum di tutto rispetto:


1) Vice Campione Regionale anno 2005 Ballo da Sala “Classe: “B”;
2) Campione Regionale anno 2006 Liscio Unificato “Classe: “B1”
3) 1° classificato “Liscio Unificato” Gara naz. Bronzi “Classe: "B1” ;
4) Campione Regionale anno 2007 Liscio Unificato “Classe : “A”;
5) Campione Regionale anno 2007 Ballo Standard “Classe: “ B2”;

6) V. Campione Regionale anno 2011 Ballo Standard "Classe:  "B1";

7) Da settembre 2012 passaggio Ballo Standard Classe: "A"

Le gare di ballo ed i saggi di danza li troverete nella sezione Video di questo sito. Che altro dire! Quanto al mio carattere, ritengo di avere molti lati negativi. Ne elenco alcuni.

LATI NEGATIVI:

- Soffro di simpatie ed antipatie;
- Odio il gioco del calcio;
- Non sopporto la mala educazione a nessun livello;
- Non sopporto quelli che si vantano;
- Non sopporto chi grida quando parla perché è volgare;
- Non capisco chi veste male pur avendone i mezzi;
- Non stimo chi parla male del prossimo e chi parla molto;
Infine,il peggiore dei difetti: credo poco nel prossimo. Molto in me stesso.

LATI POSITIVI:

NESSUNO!!. Sono un soggetto a rischio!!

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PROVA DI SCRITTURA

FERDY CANNIZZARO

Last Updated ( Martedì 11 Giugno 2024 15:14 )

 

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Last Updated ( Venerdì 15 Aprile 2022 09:27 )

Sulle valutazioni prefettizie in tema di informative antimafia

Il reale e vero obiettivo sulle valutazioni prefettizie in tema di informative antimafia

di Avv. Prof. Luciano Maria Delfino

Prolegomeni

La mia insofferenza verso la variegata e complessa architettura su cui suppostamente si regge l’istituto delle interdittive antimafia è ormai arcinota avendo io scritto, a più riprese ed anche su questa rivista, di  quelle che a me appaiono le non sottacibili incongruenze caratterizzanti il coacervo disordinato di norme che continuo a ritenere strutturalmente sbagliate e profondamente illiberali che non pochi e tangibili disastri hanno e stanno arrecando al tessuto economico ed imprenditoriale italiano e del sud in particolare.

Ho più volte ribadito come, a mio giudizio, la nobile e serissima esigenza di contrastare la criminalità organizzata non possa che essere utilmente perseguita se non nel rispetto del sistema di garanzie proprie dello Stato di diritto.

La mela che San Tommaso mostrava all’inizio delle sue lezioni stava a significare la paradigmaticità tanto del senso del reale che della oggettiva realtà. Il rifiuto pregiudiziale della realtà, in ragione della necessità di adeguamento culturale al mantra del c.d. politicamente corretto, non fa altro che dar corpo al precostituito divieto, sciente o, cosa ancor più grave, inconsapevole, di disvelamento del reale.

Invero, il cieco uniformarsi al c.d.  politically correct non produce altro effetto che annientare, con l’ausilio della cancel culture, la narrazione della verità perché siffatta adesione al conformismo del pensiero prevale sul principio di realtà, e, quindi, sulla verità. Ormai è dato fattuale ed obiettivamente non contestabile che la civiltà del nostro tempo punti a coniugare, in un eadem sentire il concetto qualunquista del politicamente corretto con la ormai più che frequente isteria normativa che caratterizza tanto l’attività legislativa che quella giudiziale nonché quella di amministrazione attiva in subiecta materia.

Alla luce di queste semplici considerazioni non bisogna avere timore di asserire che la verità unisce e la menzogna divide. Il politicamente corretto, infatti non fa altro che separare la realtà (la mela di San Tommaso) dalla verità. In buona sostanza occorre avere la forza e la dignità di riattribuire prestigio e valenza allo Stato di diritto la cui esaltazione non significa attribuire o attenuare forma alcuna di contrasto alle pulsioni malavitose, bensì assicurare che i diritti di tutti i cittadini non vengano sistematicamente calpestati senza garanzie.

La sospensione dei diritti, purtroppo tanto cara al non esaltante legislatore dei nostri giorni, nonché l’introduzione di strumenti dell’emergenza, quali sono le interdittive e/o informative, possono avere una loro utilità soltanto se usati in casi rarissimi ed in situazioni del tutto circoscritte e per di più vanno adoperate con assoluto espresso rigore per prevenire il sostanziarsi di prevaricazioni ed ingiustizie.

In relazione al ricordato fenomeno delle interdittive generiche l’attuale non illuminato legislatore ha dato vita – sia pur, ripeto, nel tentativo astrattamente lodevole di istituire una nuova frontiera contro le infiltrazioni c.d. mafiose – ad un mostro di inciviltà giuridica, ad un obbrobrio giudiziario che, calpestando il principio della presunzione di innocenza, ha determinato un vulnus, fondato sul sospetto e sull’aberrazione della presunzione di colpevolezza che mina alla radice il principio della certezza dei diritti.  

Il tetragono monolite normativo oggetto di questa analisi - purtroppo sin qui avallato da una ermeneusi giustiziale che è riuscita, salvo rare ancorché qualificate eccezioni, a delineare concettualmente un’isola che non c’è, i cui paradigmi di riferimento sono impropriamente rappresentati dalla classificazione dell’istituto quale fattispecie di pericolo che viene, in modo obbiettivamente non calzante, considerato quale vera e distintiva pietra angolare del sistema normativo c.d. antimafia a cui è riconnessa la precipua finalità di liberare il corpo sociale dalla pressione delle organizzazioni criminali attraverso l’ausilio dell’ormai standardizzato ed evanescente modello civilistico “del più probabile che non - peraltro espunto dal suo ambito naturale, riadattato alla bisogna e suppostamente fondato su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti e su dati conoscitivi astrattamente utilizzabili sia di natura tipica che atipica – sta subendo importanti incrinature che contribuiscono a rafforzare non la riaffermazione del processo di potenziamento dei valori e dei principi dello Stato di diritto sotto il profilo della legalità (che non si dimentichi essere soltanto un metodo, che, fra l’altro, va inscindibilmente correlato al principio di libertà) ma anche e soprattutto della giustizia (vero ed unico immortale valore da perseguire) una vera e concreta, e non soltanto di maniera, lotta alla criminalità organizzata.

Intendo qui riferirmi alla tecnicamente più che solida sentenza da qui a poco in esame del TAR dell’Emilia e Romagna n°729/2021, che mi appare sotto il profilo della lucidità ermeneutica quale vera e propria pietra angolare per il percorso di analisi che ormai, sin dal lontano anno domini 2015, ho avviato nei confronti di una impalcatura concettuale che si è sin qui evoluta in modo estremamente rigido e che, per ciò stesso, ossia per la sua stessa dichiarata non duttilità, ha prodotto innumerevoli guasti non soltanto nei confronti della singole sfere giuridiche soggetive incise ma anche nel tessuto economico del Paese.

La sentenza del T.A.R. dell’Emilia e Romagna, Sez. I^, 26 luglio 2021 n°729

Il giudicato in questione fa una invero puntuale e lucida analisi della non secondaria questione afferente all’assoggettamento ad interdittiva antimafia ovvero alla misura ad essa equiparata del diniego del Prefetto di Ferrara della iscrizione nella white list di quella Prefettura di una impresa.

Tale diniego è stato assunto meccanicamente dalla prefata Autorità Prefettizia territoriale in forza di un invero ingiustificato “mero automatismo” fatto acriticamente discendere dall’Autorità emanante, dalla intervenuta condanna degli amministratori e dai dirigenti di una società di capitali – operante nel settore chimico, con specializzazione nel comparto del trattamento e recupero di rifiuti provenienti   prevalentemente  da industrie farmaceutiche – per il reato sanzionato ex articolo452 quaterdecies C.P. (già articolo260 del D.Lgs. n°152/2006); fatto antigiuridico che è incluso tra i cc.dd. “reati spia” in forza dell’articolo 51, 3° comma bis C.P.P. In buona sostanza il Prefetto di Ferrara ha adottato nella circostanza in oggetto, tanto un provvedimento di interdittiva antimafia (ex articolo88, 3° comma, del D. Lgs. n°159/2011) che il diniego (ex articolo 2, 2° comma, lett. b del DPCM 18.04.2013) di iscrizione della prefata impresa nella c.d. white list tenuta presso l’U.T.G. del prefato capoluogo di Provincia.

A seguito di rituale impugnazione, la controversia è stata devoluta al sindacato giustiziale del TAR dell’Emilia e Romagna.  

Al fine di compiutamente evidenziare l’intelligente novità ermeneutica della decisione assunta dal TAR felsineo non appare inutile sottolineare come la misura interdittiva comminata in sede di amministrazione attiva nel confronti della prefata società ricorrente risulta essere motivata unicamente in ragione di una sentenza penale adottata dal G.U.P. presso il Tribunale di Bologna il quale ha disposto la condanna di alcuni amministratori e dirigenti della ricordata società irrogando loro sanzioni di natura pecuniaria, ritenendo detto Giudice penale i succitati soggetti, incisi come responsabili del reato di “concorso di persone in attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” ex articolo 452 quaterdecies C.P.,  normativamente individuato ed incluso fra i c.d. “reati spia” ai sensi dell’articolo 51, 3° comma bis C.P.P.

In realtà, giusta quanto correttamente rilevato dal G.A. di Bologna, senza che emerga sia dalla sentenza penale che dal provvedimento di interdittiva, alcun elemento che potesse lasciar presagire, anche in via indiretta, pericolo alcuno di condizionamento, da parte della criminalità organizzata, sulla più volte ricordata società ricorrente.

Di guisa che appare del tutto ultronea e certamente de jure non riferibile al caso di specie l’applicazione del combinato disposto degli artt. 67, 8° comma e 84, 2°comma del D. Lgs. n°159/2011, atteso che nella fattispecie oggetto del decisum in esame, ancorché si sia in presenza di una condanna definitiva in sede penale, non sussistono, nel modo più assoluto le condizioni per l’irrogazione, in forza di un automatismo senza ragione, dell’informazione antimafia postulata dall’articolo 88, 3° comma, del D. Lgs. n°159/2011.

Il TAR di Bologna con assoluta, grande sagacia ermeneutica ha denunciato l’irrazionalità del riferito automatismo secondo il quale la condanna penale per uno dei c.d. “reati spia” importa sempre, da parte del Prefetto, la meccanica applicazione di informazione interdittiva antimafia anche nell’ipotesi in cui non vi sia prova alcuna della riconducibilità dell’impresa ad organizzazioni criminali di sorta.

Orbene la sentenza in commento ha avuto il pregio di recidere l’irrazionale nodo gordiano attraverso la più che saggia decisione di ritenere illegittimo il non felice automatismo postulato dagli artt. 67, 8° comma e 84, 2°comma del D. Lgs n°159/2011, laddove tale meccanica applicazione della condanna penale, per uno dei c.d. “reati spia”, non implica direttamente alcun coinvolgimento con organizzazioni criminali, viepiù che tale, ribadisce, irrazionale automatismo si determina quale momento assolutamente incompatibile con la c.d., ed anch’essa non sempre fisiologica, discrezionalità amministrativa attribuita e riconosciuta in capo all’Autorità prefettizia nell’adozione delle informazioni interdittive antimafia, viepiù, fra l’altro, che l’articolo 80, 1° comma lett. a)  del D. Lgs n°50/2016, postula il principio secondo il quale la condanna penale definitiva per uno dei c.d. “reati spia” è di per sé considerato elemento inadeguato per giungere all’esclusione del soggetto economico alla partecipazione alle gare pubbliche (nel caso di specie l’iscrizione della prefata impresa nella c.d. white list tenuta presso l’U.T.G. di Ferrara), essendo a tal fine additivamente necessaria la presenza dell’ulteriore ed essenziale elemento costitutivo dal quale sia desumibile la reale e concreta partecipazione dell’imprenditore ad una organizzazione criminale.

L’innegabile plus ermeneutico della prefata sentenza del G.A. di Bologna anche rispetto alla decisione n°178 del 30.07.2021 della Corte costituzionale  

Il connotato di novità e di più incisiva significatività ermeneutica espresso dalla sentenza del TAR dell’Emilia e Romagna, risulta, invero ancor più impreziosito dalla decisione della Corte costituzionale in rubrica specificata.

Con quest’ultima sentenza il prefato Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 24, 1° comma, lett. d) del D.L. 4.10.2018 n°113, convertito con modifiche nella L.1.12.2018 n°132, nella parte in cui la richiamata normazione ha inciso con effetto modificativo sull’articolo67, 8° comma del D. Lgs. n°159/2011, limitatamente alla dictio afferente “ai reati di cui all’articolo 640, 2° comma, n°1 del C.P.”  e cioè all’ipotesi di truffa commessa a danno dello Stato o di altro Ente pubblico.  

In buona sostanza la decisione della Corte costituzionale ha ritenuto che la fattispecie ex articolo 640-bis C.P. non abbia, come non ne ha, natura associativa alcuna, né postuli l’esistenza di una organizzazione preordinata alla commissione del reato medesimo, bensì “…. una dimensione prettamente individuale che può, senza tema di smentita, riguardare anche condotte di minore rilevo… ed è punito con pene di più lieve entità (massimo edittale sette anni) senza peraltro la previsione di ipotesi di deroghe al regime processuale ordinario”.

Di guisa che, quanto rilevato dalla Consulta rende del tutto contraria al principio di ragionevolezza la scelta di far automaticamente derivare, sia dalle fattispecie di cui all’articolo 51, 3° comma-bis che da quella p. e p. dall’articolo 640-bis, l’identica incapacità giuridica del soggetto inciso di avere rapporti con le P.A.,  viepiù in considerazione dell’obiettiva evidenza che l’applicazione irriflessa di tale automatismo determina danni ingiustificatamente elevati “alla libertà di iniziativa economica sia sul piano patrimoniale, sia della reputazione imprenditoriale”.

Va, però, a scanso di equivoci, subito e con fermezza affermata l’innegabile autonoma valenza ermeneutica della decisione del TAR felsineo, rispetto alla testé ricordata pronuncia di illegittimità costituzionale. Infatti  il non ritenere rigidamente consequenziale l’applicazione della interdittiva da parte del Prefetto, rilevata dal ricordato G.A., rimane viepiù corroborata dall’obiettiva evidenza che mentre il sindacato della Corte costituzionale che, esclude l’automatismo applicativo della misura interdittiva dalla P.A., resta confinato e circoscritto alla sola ipotesi del “reato spia” di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, il significativo decisum del  TAR di Bologna, abbraccia giustamente e del tutto legittimamente lo spettro più ampio dei reati p.p. dall’articolo 51, 3° comma-bis C.P.P., viepiù, fra l’altro, che la ormai più volte ricordata pronuncia di illegittimità costituzionale non intacca  in alcun modo e misura il complesso del testo dell’articolo 67, 8° comma del D. Lgs. n°159/2011 nella parte in cui include, tra i c.d. “reati spia” i delitti inseriti nell’elenco di quelli indicati nell’articolo 51, 3° comma C.P.P. e fra i quali è espressamente contemplato il reato analizzato dal Giudice di Bologna e cioè quello previsto dall’articolo 452 quaterdecies C.P.

La sentenza del TAR dell’Emilia e Romagna, infatti, pur non mettendo in discussione l’astratta e complessiva capacità potenzialmente idonea a giustificare l’adozione delle misure interdittive – che  trova la sua ontologica giustificazione nella indiscussa pericolosità propria del fenomeno mafioso – molto opportunamente a mio avviso, si preoccupa, in un quadro normativo di riferimento più ampio rispetto a quello considerato dalla Consulta, di evitare e prevenire distorsioni applicative, inutili e fuorvianti del sistema interdittive, ed a garantire un reale, liberale e giusto equilibrio dei giustapposti interessi  correlati alla libertà (insopprimibile) di impresa ed alla salvaguardia dell’ordine pubblico nelle ipotesi in cui non sia concretamente possibile ravvisare, in sede di amministrazione attiva, indice alcuno di appartenenza ad una organizzazione criminale.

Infatti il semplice e pedissequo richiamo di maniera, come nel caso giudicato dal Giudice felsineo, non consente, né può consentire all’Autorità prefettizia di emanare la misura interdittiva atteso che, comunque ed in ogni caso, il dettaglio analitico “delle condotte …..che hanno portato alla condanna penale non sono e non possono essere indizianti di alcunché in quanto non indicanti alcun elemento atto a collegare la società ricorrente a situazioni di pericolo di condizionamento da parte di organizzazioni di tipo mafioso”.     

Conclusioni

L’oculata ermeneusi condotta dal TAR dell’Emilia e Romagna, con la più che logica ed in verità anche ben scritta sentenza n°729/2021, mette in risalto, con lucida e, per vero non confutabile dimostrazione, come l’aspetto dell’automatismo tout-court contrasti, per genesi ontologica, con la tanto sbandierata attribuzione al Prefetto - nella ricerca e nella valutazione dei fatti sintomatici di eventuali connivenze o collegamento di tipo mafioso -  di un margine di apprezzamento discrezionale di ampiezza senza precedenti e che ha consentito di avallare e di giungere, in sede di plurimi e non condivisibili sindacati giustiziali, sino al punto da considerare legittimi provvedimenti interdittivi anche in presenza di provvedimenti contrari del Giudice penale, persino nella evenienza  estrema in cui quest’ultimo, attraverso sentenze di proscioglimento o di assoluzione, abbia ritenuto e/o ritenga non superata la soglia di punibilità penale, atteso che l’interdittiva o il dinego di iscrizione dell’impresa nella white list delle varie Prefetture non possono mai essere seriamente e razionalmente considerate atti preventivi di natura cautelare in senso proprio, bensì momenti provvedimentali definitivamente conclusivi del procedimento.

Infatti a ben riflettere, e la sentenza del G.A. di Bologna ne è splendida e lampante riprova, il provvedimento interdittivo in qualunque forma e connotato, allo stato dell’arte venga assunto, non può mai essere considerato atto preventivo di natura cautelare in senso proprio, bensì momento provvedimentale definitivamente conclusivo del procedimento e dissolutorio del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A.

Ne consegue che in ogni caso, come peraltro, più volte, da me con altri scritti ricordato, deve essere garantito il contraddittorio con il soggetto destinatario del provvedimento antimafia; contraddittorio necessario e non eventuale atteso che il doveroso ascolto delle ragioni del soggetto destinatario dell’attività Prefettizia in subiecta materia assume importanza essenziale  ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove ed argomentazioni convincenti pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli. Quanto sostenuto, anche in considerazione del fatto che l’effetto del provvedimento interdittivo, così come oggi concepito ed in tantissimi casi giustizialmente non correttamente interpretato, determina la sostanziale condanna a morte dell’impresa senza che, di contro, sussistano il più delle volte, motivi giuridicamente validi che possano escludere a priori la previsione del contraddittorio stesso.

Ben vengano dunque decisioni come quella del TAR di Bologna, ribadisco ottimamente scritte e concettualmente valide sotto il profilo della qualità giuridica, che permettono di conseguire il solo ed unico fine a cui il Giudice deve tendere che è quello di assicurare giustizia sostanziale.

Last Updated ( Domenica 12 Dicembre 2021 09:24 )

La applicabilità del criterio del prezzo del giusto consenso

Proprietà industriale: l'applicabilità del criterio del prezzo del giusto consenso 

Avv. Duilia Delfino

ll criterio del prezzo del giusto consenso

Con la recentissima sntenza n. 24635 del 13 Settembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione affronta nuovamente l'annosa questione della liquidazione del danno fondata sul cd. 

"criterio del prezzo del giusto consenso" prevista dall'art.125 ,comma 2, del Codice Proprietà Industriale (C.P.I. ).

Il suddetto criterio consente al titolare di un marchio o di altro segno distintivo di richiedere al Giudice in via sussidiaria rispetto all'applicazione della disciplina civilistica del risarcimento del danno aquiliano, la liquidazione in proprio favore ed in via equitativa del danno derivante dalla contraffazione del proprio segno distintivo. 

La Suprema Corte si troca quindi a dare una interpretazione della norma in questione all'interno di una vocenda che ha per oggetto la contraffazione di un marchio e, che vede contrapposte due società che si occupano del settore dell'abbilgliamento: la Fenicia S.P.A. , titolare di un noto marchio, e la Dema s.r.l.

Il prefato organo giustiziale, dopo aver proceduto alla disamina della questione insorta tra le due società, arriva alla conclusione che la liquidazione del danno di cui all'art. 125 C.P.I., comma 2, si concretizza attraverso la corresponsione al danneggiato di una somma globale che viene stabilita in base agli atti di causa ed alle presenzioni che ne derivano; presunzioni che possono basarsi anche soltanto sugli elementi indiziari offerti dal danneggiato medesimo. Ne consegue che il danno risarcibile secondo il criterio del prezzo del giusto consenso non può mai essere astrattamente calcolato, ma, invce,  va provato quantomeno mediante l'ausilio di semplici presunzioni.


La vicenda giudiziaria: i tre gradi di giudizio

La vicenda oggetto di disamina inizia con la citazione in giudizio davanti al Tribunale di Torino da parte di Fenicia S.P.A. , società titolare di un noto marchio di abbigliamento, nei confronti di Dema s.r.l. società operante nel medesimo settore.

Fenicia ritendo Dema responsabile di contraffazione del proprio marchio e autrice di concorrenza sleale chiedeva che la società convenuta venisse condannata al risarcimento dei danni provocate dalle condotte e dai comportamenti scorretti assunti all' interno del mercato dall'abbigliamento ngli anni 2010 e 2011.

Il Tribunale adito, nell'analizzare la questione, riscontrava che Dema s.r.l. aveva posto in essere atti di concorrenza sleale dato che la Società convenuta aveva usato il marchio di titolarità di Fenicia sui prodotti da essa commercializzati e sulle insegne dei propri negozi, di guisa che esso giudice di prime cure accoglieva la domanda attorea e condannava la convenuta al risarcimento del danno.

L'entità del risarcimento del danno, invece, veniva valutata sulla base del rapporto tra fatturato e utili conseguiti da Dema per gli anni relativi alle violazioni commesse da quest'ultima, sul cui risultato a sua volta veniva calcolata un'ipoteca royalty che Dema avrebbe dovuto pagare  a Fenicia qualora quest'ultima le avesse licenziato il marchio.

Dema s.r.l. a seguito della ricordata pronuncia di prime cure, proponeva appello limitatamente al capo della sentenza relatvo al risarcimento dei danni.

La Corte di appello accoglieva il gravame proposto da Dema in quanto a suo giudizio Fenicia non aveva dato prova del danno subito, atteso che non aveva allegato alcun fatto specifico a sostegno della domanda risarcitoria. Difatti, a giudizio del giudice di secondo grado l'appellata Fenicia si era limitata a sostenere che il danno emergente comprendesse il costo supportatato dalla stessa pe accertare l'illecito e la diluizione del potere distintivo del marchio, e che il lucro cessante si sostanziasse  nel mancato guadagno derivante dal calo delle vendite dei prodotti rapportato allo andamento della commercializzazione futura dei prodotti all'interno del mercato.

Secondo la Corte di appello, la Fenicia non aveva provato il lucro cessante e, quindi, non potendosi applicare il criterio equitativo di risarcimento per l'assenza dei presupposti indicati nell'art. 125 comma 2 C.P.I. , la stessa Società appellata era stata condannata a restituire a Dema una somma pari ad Euro 250.471,71.

Avverso la pronuncia della Corte di appello di Torino Fenicia propponeva ricorso in Cassazione contestando le risultanze della sentenza di secondo grado. La Suprema Corte, una volta esaminata la questione, rigettava il ricorso ritenendolo infondato poichè, a suo parere, Fenicia non aveva provato il danno  subito.

Tale danno secondo il giudizio del giudice di legittimità,non può essere liquidato tout court e, cioè valutato in astratto, ma deve essere stimato sulla base degli atti di causae della presunzioni offerte da danneggiato, anche attraverso elementi indiziari.

IL RAGIONAMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Suprema Corte, come già anticipato sopra, ha ritenuto il ricorso presentato da Fenicia S.P.A. infondato. L' organo giudicante è giunto a tale conclusione dopo aver fatto un raffronto fra il disposto dell'art. 125 C.P.I. che disponeva le fattispcie del risarcimento del danno e della restituzione dei profittidell'autore della violazione in materia di proprietà industriale, e quello dagli artt. 1223 e ss. codice civile che delineavano i generali criteri di risarcimento del danno previsti da nostro codice civile.

La Corte, nel raffrontare le norme sopra citate, evidenzia come il giudice di prime cure, al contrario della Corte di Appello, una volta accertata la contraffazione, si sia erroneamente limitata a liquidare un risarcimento del danno a favore della Fenicia S.p.a. secondo il criterio di equità limitato a liquidare uin risarcimento del danno a favore della S.p.a. Fenicia secondo il criterio di equità di cui all'art. 125, comma 2, C.P.I. senza tuttavia dornire alcuna motivazione su come fosse giunto a tale determinazione. Infatti, la attrice/ticorrente, a parere della Cassazione, non solo era sta in grado di fornire prova diretta dei danni subiti, ma, addirittura, non era riuscita neanche a dare prova alcuna del danno subito neppure attraverso l'ausilio di elementi indiziari in forza dei quali si potesse comunque giustificare il criterio forfettario previsto dall'art. 125, comma 2, C.P.I.

Il giudicato di primo grado, a giudizio del Supremo giudice di legittimità, è stato, dunque, correttamente ribaltato da Corte di Appello, atteso che Fenicia S.p.a. non è riuscita a fornire prova alcuna dei danni lamentati in forza della suddetta contraffazione di marchio, non essendosi peritata di allegare alcun documento volto a dimostrare l'esistenza di effetti pregiudizievoli. Feenicia, a prere del giudice di secondo grado, si era limitata a effettuare una generica denunzia per i danni subiti. La Corte di Appello ha dunque esaminato la domanda risarcitoria avanzata da Fenicia sia sotto il profilo del danno emergente, sia sotto quello del lucro cessante ed ha osservato che la ricorrente non aveva allegato alcun fatto specifico da cui sarebbero derivati i danni lamentati.

Il giudice di Appello - come correttamente ribadito dalla Cassazione - infatti ha stauito che le allegazioni fornite da Fenicia fossero del tutto generiche e non riferibili al caso concreto. In poche parole Fenicia non è riuscita a dimostrare il lucro cessante, vale a dire l'arricchimento del contraffattore ed il danno ad esso correlato.Tale danno pur potendosi in astratto liquidare equitativamente non poteva aver trovato concretizzazione in quanto risultava del tutto impossibile  ipotizzare astrattamente che ogni vendita realizzata da Dema fosse una vendita non realizzata da Fenicia.

Il pregiudizio del lucro cessante, anche se secondo l'art.125, comma 2, C.P.I. può essere determinato in un importo pari a quello che l'autore della contraffazioneavrebbe pagato se avesse ottenuto la licenza dal titolare del diritto in base al cd. criterio del "giusto pezzo" del consenso, deve, comunque, esssere correttamente dimostrato e non frutto di ipotesi astratte.

Ne consegue che alla luce di quanto occorso nel processo di meito, la  Suprema Corte, reputando corretto il giudizio della Corte di Appello, ha ritenuto che il danno richiesto da Fenicia non poteva essere considerato quale ipotesi di danno configirabilein re ipsa e, pertanto, il danneggiato non può mai essere esonerato dall'onere della prova, qualora pretenda di ottenere il risarcimento del danno de quo.

Difatti se si analizza attentamente il dettato dell'art. 125 dl C.P.I. comma 2, risulta evidente che il danneggiato ha, in ogni caso, l'onere di dimostrare il danno subito. La predetta norma dispone infatti che il giudice possa liquidare il danno rapportato alla somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni  che ne derivano, unicamente sulla scorta quanto meno di elementi indiziari offerti dal danneggiato.

Tale danno, secondo la dottrina e la giurisprudenza si avvicina al cd. danno "concorrenziale" in quanto deriva anche esso da una alterazione dei fattori di mercato conseguenti allo illecito commesso dal contraffattore la cui condotta giustifica di per se l'irrogazione ddell'inibitoria anche in assenza di un danno economico attuale per il titolare del diritto violato.

Tuttavia il danno risarcibile ai sensi del 125, comma 2, C.P.I. nonostante le affinità con il danno concorrenziale, si distingue da quest'ultimo dal punto di vista risarcitorio in quanto per il concretizzarsi dallo stesso è richiesta un'alterazione attuale e concreta dei fattori di mercato. Ne consegue che se da un lato è vero che l'art. 125, comma 2, C.P.I. delinea una fattispecie di danno liquidabile equitativamente attraverso il  cd. criterio del giusto consenso ossia un parametro agevolatore dell'onere probatorio gravante sull'attore, dall'altro è anche vero che la suddetta liquidazione non può mai basarsi  su presunzioni astratte.

La Suprema Corte quindi non ha potuto che giustamente confermare quanto già statuito dalla Corte di appello, ovvero la liquidazione non può prescindere  dalla applicazione degli artt. 1123 Codice civile.

Tali artt. disciplinano la fattispecie del risarcimeto del danno sia con riferimento al profilo dela danno emergente sia per quanro attiene al lucre cessante e richiedono la sussistenza di un adeguiato rapporto di causalità tra l'illecito ed i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori specialmente  ove il danno debba essere valutato secondo equità.

 CONCLUSIONI

La Suprema Corte ha stauito che il concetto di equità rapportato alla liquidazione di un danno non può prescondere "dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l'illecito ed i danni sofferti ed allegati secondo i criteri ordinari provatori." artt. 1223,1226,e 1227 codice civileequindi non potrà mai essere determinata in astratto. Difatti se così non fosse si snaturerebbe del tutto il caposaldo del nostro sistema processuale. La Suprema Corte ha dunque fugato ogni dubbio fornedo ai Giudici un corretto criterio di interpretazione nella liquidazione del del lucro cessante secondo equità.-










Last Updated ( Sabato 23 Ottobre 2021 19:08 )

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