27 dicembre 2024
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Luciano Maria Delfino

La applicabilità del criterio del prezzo del giusto consenso

Proprietà industriale: l'applicabilità del criterio del prezzo del giusto consenso 

Avv. Duilia Delfino

ll criterio del prezzo del giusto consenso

Con la recentissima sntenza n. 24635 del 13 Settembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione affronta nuovamente l'annosa questione della liquidazione del danno fondata sul cd. 

"criterio del prezzo del giusto consenso" prevista dall'art.125 ,comma 2, del Codice Proprietà Industriale (C.P.I. ).

Il suddetto criterio consente al titolare di un marchio o di altro segno distintivo di richiedere al Giudice in via sussidiaria rispetto all'applicazione della disciplina civilistica del risarcimento del danno aquiliano, la liquidazione in proprio favore ed in via equitativa del danno derivante dalla contraffazione del proprio segno distintivo. 

La Suprema Corte si troca quindi a dare una interpretazione della norma in questione all'interno di una vocenda che ha per oggetto la contraffazione di un marchio e, che vede contrapposte due società che si occupano del settore dell'abbilgliamento: la Fenicia S.P.A. , titolare di un noto marchio, e la Dema s.r.l.

Il prefato organo giustiziale, dopo aver proceduto alla disamina della questione insorta tra le due società, arriva alla conclusione che la liquidazione del danno di cui all'art. 125 C.P.I., comma 2, si concretizza attraverso la corresponsione al danneggiato di una somma globale che viene stabilita in base agli atti di causa ed alle presenzioni che ne derivano; presunzioni che possono basarsi anche soltanto sugli elementi indiziari offerti dal danneggiato medesimo. Ne consegue che il danno risarcibile secondo il criterio del prezzo del giusto consenso non può mai essere astrattamente calcolato, ma, invce,  va provato quantomeno mediante l'ausilio di semplici presunzioni.


La vicenda giudiziaria: i tre gradi di giudizio

La vicenda oggetto di disamina inizia con la citazione in giudizio davanti al Tribunale di Torino da parte di Fenicia S.P.A. , società titolare di un noto marchio di abbigliamento, nei confronti di Dema s.r.l. società operante nel medesimo settore.

Fenicia ritendo Dema responsabile di contraffazione del proprio marchio e autrice di concorrenza sleale chiedeva che la società convenuta venisse condannata al risarcimento dei danni provocate dalle condotte e dai comportamenti scorretti assunti all' interno del mercato dall'abbigliamento ngli anni 2010 e 2011.

Il Tribunale adito, nell'analizzare la questione, riscontrava che Dema s.r.l. aveva posto in essere atti di concorrenza sleale dato che la Società convenuta aveva usato il marchio di titolarità di Fenicia sui prodotti da essa commercializzati e sulle insegne dei propri negozi, di guisa che esso giudice di prime cure accoglieva la domanda attorea e condannava la convenuta al risarcimento del danno.

L'entità del risarcimento del danno, invece, veniva valutata sulla base del rapporto tra fatturato e utili conseguiti da Dema per gli anni relativi alle violazioni commesse da quest'ultima, sul cui risultato a sua volta veniva calcolata un'ipoteca royalty che Dema avrebbe dovuto pagare  a Fenicia qualora quest'ultima le avesse licenziato il marchio.

Dema s.r.l. a seguito della ricordata pronuncia di prime cure, proponeva appello limitatamente al capo della sentenza relatvo al risarcimento dei danni.

La Corte di appello accoglieva il gravame proposto da Dema in quanto a suo giudizio Fenicia non aveva dato prova del danno subito, atteso che non aveva allegato alcun fatto specifico a sostegno della domanda risarcitoria. Difatti, a giudizio del giudice di secondo grado l'appellata Fenicia si era limitata a sostenere che il danno emergente comprendesse il costo supportatato dalla stessa pe accertare l'illecito e la diluizione del potere distintivo del marchio, e che il lucro cessante si sostanziasse  nel mancato guadagno derivante dal calo delle vendite dei prodotti rapportato allo andamento della commercializzazione futura dei prodotti all'interno del mercato.

Secondo la Corte di appello, la Fenicia non aveva provato il lucro cessante e, quindi, non potendosi applicare il criterio equitativo di risarcimento per l'assenza dei presupposti indicati nell'art. 125 comma 2 C.P.I. , la stessa Società appellata era stata condannata a restituire a Dema una somma pari ad Euro 250.471,71.

Avverso la pronuncia della Corte di appello di Torino Fenicia propponeva ricorso in Cassazione contestando le risultanze della sentenza di secondo grado. La Suprema Corte, una volta esaminata la questione, rigettava il ricorso ritenendolo infondato poichè, a suo parere, Fenicia non aveva provato il danno  subito.

Tale danno secondo il giudizio del giudice di legittimità,non può essere liquidato tout court e, cioè valutato in astratto, ma deve essere stimato sulla base degli atti di causae della presunzioni offerte da danneggiato, anche attraverso elementi indiziari.

IL RAGIONAMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Suprema Corte, come già anticipato sopra, ha ritenuto il ricorso presentato da Fenicia S.P.A. infondato. L' organo giudicante è giunto a tale conclusione dopo aver fatto un raffronto fra il disposto dell'art. 125 C.P.I. che disponeva le fattispcie del risarcimento del danno e della restituzione dei profittidell'autore della violazione in materia di proprietà industriale, e quello dagli artt. 1223 e ss. codice civile che delineavano i generali criteri di risarcimento del danno previsti da nostro codice civile.

La Corte, nel raffrontare le norme sopra citate, evidenzia come il giudice di prime cure, al contrario della Corte di Appello, una volta accertata la contraffazione, si sia erroneamente limitata a liquidare un risarcimento del danno a favore della Fenicia S.p.a. secondo il criterio di equità limitato a liquidare uin risarcimento del danno a favore della S.p.a. Fenicia secondo il criterio di equità di cui all'art. 125, comma 2, C.P.I. senza tuttavia dornire alcuna motivazione su come fosse giunto a tale determinazione. Infatti, la attrice/ticorrente, a parere della Cassazione, non solo era sta in grado di fornire prova diretta dei danni subiti, ma, addirittura, non era riuscita neanche a dare prova alcuna del danno subito neppure attraverso l'ausilio di elementi indiziari in forza dei quali si potesse comunque giustificare il criterio forfettario previsto dall'art. 125, comma 2, C.P.I.

Il giudicato di primo grado, a giudizio del Supremo giudice di legittimità, è stato, dunque, correttamente ribaltato da Corte di Appello, atteso che Fenicia S.p.a. non è riuscita a fornire prova alcuna dei danni lamentati in forza della suddetta contraffazione di marchio, non essendosi peritata di allegare alcun documento volto a dimostrare l'esistenza di effetti pregiudizievoli. Feenicia, a prere del giudice di secondo grado, si era limitata a effettuare una generica denunzia per i danni subiti. La Corte di Appello ha dunque esaminato la domanda risarcitoria avanzata da Fenicia sia sotto il profilo del danno emergente, sia sotto quello del lucro cessante ed ha osservato che la ricorrente non aveva allegato alcun fatto specifico da cui sarebbero derivati i danni lamentati.

Il giudice di Appello - come correttamente ribadito dalla Cassazione - infatti ha stauito che le allegazioni fornite da Fenicia fossero del tutto generiche e non riferibili al caso concreto. In poche parole Fenicia non è riuscita a dimostrare il lucro cessante, vale a dire l'arricchimento del contraffattore ed il danno ad esso correlato.Tale danno pur potendosi in astratto liquidare equitativamente non poteva aver trovato concretizzazione in quanto risultava del tutto impossibile  ipotizzare astrattamente che ogni vendita realizzata da Dema fosse una vendita non realizzata da Fenicia.

Il pregiudizio del lucro cessante, anche se secondo l'art.125, comma 2, C.P.I. può essere determinato in un importo pari a quello che l'autore della contraffazioneavrebbe pagato se avesse ottenuto la licenza dal titolare del diritto in base al cd. criterio del "giusto pezzo" del consenso, deve, comunque, esssere correttamente dimostrato e non frutto di ipotesi astratte.

Ne consegue che alla luce di quanto occorso nel processo di meito, la  Suprema Corte, reputando corretto il giudizio della Corte di Appello, ha ritenuto che il danno richiesto da Fenicia non poteva essere considerato quale ipotesi di danno configirabilein re ipsa e, pertanto, il danneggiato non può mai essere esonerato dall'onere della prova, qualora pretenda di ottenere il risarcimento del danno de quo.

Difatti se si analizza attentamente il dettato dell'art. 125 dl C.P.I. comma 2, risulta evidente che il danneggiato ha, in ogni caso, l'onere di dimostrare il danno subito. La predetta norma dispone infatti che il giudice possa liquidare il danno rapportato alla somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni  che ne derivano, unicamente sulla scorta quanto meno di elementi indiziari offerti dal danneggiato.

Tale danno, secondo la dottrina e la giurisprudenza si avvicina al cd. danno "concorrenziale" in quanto deriva anche esso da una alterazione dei fattori di mercato conseguenti allo illecito commesso dal contraffattore la cui condotta giustifica di per se l'irrogazione ddell'inibitoria anche in assenza di un danno economico attuale per il titolare del diritto violato.

Tuttavia il danno risarcibile ai sensi del 125, comma 2, C.P.I. nonostante le affinità con il danno concorrenziale, si distingue da quest'ultimo dal punto di vista risarcitorio in quanto per il concretizzarsi dallo stesso è richiesta un'alterazione attuale e concreta dei fattori di mercato. Ne consegue che se da un lato è vero che l'art. 125, comma 2, C.P.I. delinea una fattispecie di danno liquidabile equitativamente attraverso il  cd. criterio del giusto consenso ossia un parametro agevolatore dell'onere probatorio gravante sull'attore, dall'altro è anche vero che la suddetta liquidazione non può mai basarsi  su presunzioni astratte.

La Suprema Corte quindi non ha potuto che giustamente confermare quanto già statuito dalla Corte di appello, ovvero la liquidazione non può prescindere  dalla applicazione degli artt. 1123 Codice civile.

Tali artt. disciplinano la fattispecie del risarcimeto del danno sia con riferimento al profilo dela danno emergente sia per quanro attiene al lucre cessante e richiedono la sussistenza di un adeguiato rapporto di causalità tra l'illecito ed i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori specialmente  ove il danno debba essere valutato secondo equità.

 CONCLUSIONI

La Suprema Corte ha stauito che il concetto di equità rapportato alla liquidazione di un danno non può prescondere "dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l'illecito ed i danni sofferti ed allegati secondo i criteri ordinari provatori." artt. 1223,1226,e 1227 codice civileequindi non potrà mai essere determinata in astratto. Difatti se così non fosse si snaturerebbe del tutto il caposaldo del nostro sistema processuale. La Suprema Corte ha dunque fugato ogni dubbio fornedo ai Giudici un corretto criterio di interpretazione nella liquidazione del del lucro cessante secondo equità.-










Last Updated ( Sabato 23 Ottobre 2021 19:08 )

 

La visione prosopagnosica dell'attuale giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di interdittive antimafia

La visione prosopagnosica dell’attuale giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di interdittive antimafia

Tratto da filodiritto

https://www.filodiritto.com/la-visione-prosopagnosica-dellattuale-giurisprudenza-del-consiglio-di-stato-tema-di-interdittive-antimafia

Le pressoché costanti reiezioni da parte del Consiglio di Stato delle censure rivolte nei confronti delle informative antimafia, in nome di un del tutto generico “superiore interesse della difesa dei valori fondanti della democrazia”, evocano, in chi, come me cura da anni l’analisi del fenomeno senza pregiudizi manichei[1], l’immagine di un mondo in bianco e nero, il riflesso standardizzato, e per vero inquietante, di un disegno concettuale, frutto di astrazione indefinita ed indefinibile, che indiscutibilmente arreca patente pregiudizio allo scopo peculiare che dovrebbe informare la funzione della giurisdizione che è quello di assicurare ai consociati la garanzia dell’esercizio di una giustizia giusta e giammai occhiuta e cieca.

Rispetto a tale doverosa finalità l’attuale indirizzo della G.A. appare, al pari della affezione rappresentata dalla prosopagnosia, come una fotografia che non trasmette nulla e dove niente è familiare, una visione indistinta del tutto estranea ed avulsa dalla realtà ed in cui non appare agevole riconoscere le giuste peculiarità, ancorché le medesime siano di rilevanza essenziale per una corretta ermeneusi del fenomeno e si finisce, per l’effetto, di trascurare e confondere dettagli di significativa importanza. In buona sostanza è come guardare uno specchio senza ravvisare in esso alcuna immagine, neppure un semplice riflesso.

Di fronte ad un simile e purtroppo ormai cristallizzato ed obiettivamente non fisiologico indirizzo giurisprudenziale l’immediato e spontaneo interrogativo a cui occorre dare risposta è se è mai normale che in un ordinamento costituzionale democratico possa essere plausibile – senza alcuna previa determinazione dei presupposti e sulla aleatoria scorta di una valutazione di tipo prognostico possibilista –  che il potere dello Stato giunga sino al punto di comprimere diritti fondamentali, quali quelli di libertà, di proprietà e di iniziativa economica.

E se è conforme a jus  asserire a cuor leggero e per di più in termini apodittici – al solo fine di comunque legittimare il proprio monocorde e monolitico sindacato  giustiziale – che le interdittive “rappresentano la forte risposta dello Stato” tesa a salvaguardare i valori fondanti della democrazia da eventuali, probabili ma il più delle volte obiettivamente indimostrati  tentativi di infiltrazione mafiosa  tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società, delle imprese interessate e delle Amministrazioni locali, rectius prese di mira.

In realtà dette interdittive, adottate discrezionalmente dall’Autorità amministrativa, viepiù in assenza di un concreto e necessario contraddittorio endo-procedimentale, si fondano sulla mera ed astratta verifica della possibile persistenza del pericolo di contiguità con la mafia di una impresa tendenzialmente operante nell’economia legale.

Ed inoltre se è mai lecito che il sindacato giustiziale sulle conclusioni del Prefetto resti relegato alle sole ipotesi di manifesta illogicità, irragionevolezza ed al travisamento dei fatti, con l’obiettiva non fisiologica conseguenza che all’esercizio dello stesso rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento amministrativo di interdittiva.

Addirittura il G.A. si spinge sino al punto di ritenere, nonostante la palese indeterminatezza dei presupposti normativi che connotano l’informativa generica, che i medesimi non si pongano in contrasto con i principi ed i valori della Carta (articoli 3 e 117).

Per sostenere la propria, a mio parere, non commendevole azione ermeneutica tesa a legittimare l’adozione dei provvedimenti di interdittiva, la III^ Sezione del Consiglio di Stato definisce un sistema di tassatività sostanziale, persino laddove si sia in presenza di provvedimenti del giudice penale, sfavorevoli alle iniziative assunte in sede prefettizia quali le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, quando dagli stessi emergano valutazioni che, sebbene non superino la soglia della punibilità penale, possano comunque apparire (a giudizio di chi e su quali basi esso si possa fondare) sostanzialmente sintomatiche (ancorché obiettivamente non descritte ex lege) di possibile contaminazione mafiosa.

Tutto ciò, a ben vedere appare paradossale, atteso che in uno Stato democratico di diritto ogni provvedimento dell’Autorità statuale che va ad incidere sulle libertà dei singoli – qualunque ne sia la sua natura (penale, amministrativa o preventiva) – va  necessariamente sottoposto ad una disciplina sostanziale e processuale scrupolosa ed attenta e va altresì ancorato ad un controllo giustiziale di merito e di logicità inserito nell’ambito di  un contesto procedimentale che garantisca il pieno esercizio di difesa ed il contraddittorio, atteso che nessuna esigenza di politica di contrasto alla criminalità può mai legittimare il ricorso da parte dei poteri pubblici a sanzioni atte a disequilibrare il rapporto autorità-libertà tra Stato e cittadino, posto che ogni provvedimento destinato ad incidere la sfera dei diritti dei cives deve sempre rispettare le condizioni minime per poter consentire ai potenziali destinatari di difendersi adeguatamente in giudizio dinnanzi ad un giudice che, proprio per sua naturale ed intrinseca funzione, non deve meramente ratificare la decisione amministrativa de qua, ma che è deputato a verificare la legittimità formale ed i presupposti di fatto del provvedimento di interdittiva sottoposto al suo sindacato.  

In buona sostanza quanto sopra riferito, ritengo possa significare come non sia oggettivamente corretto che, sulla base di presupposti così labili come quelli definiti dal codice antimafia, possa essere attribuito al Prefetto il potere di adottare misure preventive di portata così pervasiva, soltanto sulla scorta di elementi che siano meramente immaginari ed aleratori.

Sant’Agostino in un passo del De civitate Dei ha affermato che uno Stato senza Diritto è una banda di briganti” identificando il diritto non con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere. In forza di ciò, per rimanere nell’ambito del tema, continuo a ritenere che la nobile e serissima esigenza di contrastare la criminalità organizzata possa essere affrontata e vinta rispettando il sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto, identificando il diritto non già con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere.

Non è, infatti, la legge che fonda la verità, ma è la verità che dà fondamento alla legge. Pertanto le leggi devono essere il frutto della coscienza di un popolo e non già espressioni impositivamente definite dall’alto. Il popolo, infatti, rispetta le leggi soltanto perché le sente come sue, perché ne è partecipe e ne è profondamente e coscientemente orgoglioso. Occorre avere il coraggio civile di riportare lo Stato alla sua naturale e nobile funzione di fonte produttiva di equità e di sicurezza sociale per evitare che lo stesso appaia ai consociati come soggetto che riflette espressioni di ingiustificata prepotenza, di distorta incertezza e di instabilità.

In buona sostanza occorre avere la dignità e la forza di riattribuire prestigio e valenza allo Stato di diritto la cui esaltazione non significa inibire o attenuare forma alcuna di contrasto alle pulsioni malavitose, bensì assicurare che i diritti di tutti i cittadini non vengano – con l’improvvido avallo dell’attuale prosopagnosica giurisprudenza del G.A. – sistematicamente calpestati senza garanzie.

La sospensione del diritto, purtroppo tanto cara al non esaltante legislatore dei nostri giorni, nonché l’introduzione di strumenti dell’emergenza, quali quelli di cui oggi ci occupiamo, possono avere una loro utilità soltanto se usati in casi rarissimi ed in situazioni assolutamente circoscritte e per di più vanno adoperati con assoluto espresso rigore per prevenire il sostanziarsi di prevaricazioni ed ingiustizie.

Con espresso riferimento al fenomeno delle interdittive generiche il non illuminato legislatore di questi nostri tempi ha creato – sia pur nel tentativo astrattamente lodevole di istituire una nuova frontiera contro le infiltrazioni c.d. mafiose – un mostro di inciviltà giuridica, un obbrobbio giudiziario che, calpestando il principio della presunzione di innocenza, ha determinato un essenziale vulnus, fondato sul sospetto e sull’aberrazione della presunzione di colpevolezza, che mina alla radice il principio della certezza dei diritti.

In buona sostanza un vero e proprio disastro per lo Stato di diritto in cui le libertà di ciascun cittadino restano affidate e senza garanzie agli organi della P.A. procedente e con il nuovo codice antimafia ad una sola parte del processo, ossia l’accusa, addirittura in tempo anteatto allo svolgimento dello stesso. Il sistema delle interdittive in pratica è teleologicamente preordinato – con l’avallo di una appunto prosopagnosica giurisprudenza – al solo distorto obiettivo di punire prima del giudizio.

La normativa in parola ha aperto la porta, purtroppo, senza riflessione alcuna in sede giudiziale, a quella cultura del sospetto che simboleggia l’esatto contrario di quella che dovrebbe essere la regola di ogni democrazia liberale che, fra l’altro, confligge in maniera e misura più che evidente con i principi di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e di presunzione di innocenza consacrati dalla Carta nonché con il diritto della proprietà privata che, come è noto, può essere sacrificato e limitato soltanto mediante giusto indennizzo.

Il sistema di tassatività sostanziale – a mio avviso, impropriamente prefigurato dal G.A. e segnatamente esaltato dall’ottica giustiziale incomprensibilmente uniforme e granitica della III^ Sezione del Consiglio di Stato e sostenuto dalla assoluta indeterminatezza delle condizioni legislative che consentono al Prefetto di emettere interdittive antimafia generiche – appare quanto di più illiberale ed insostenibile possa immaginarsi per uno Stato di diritto che per vocazione naturale ha messo costituzionalmente al bando gli oscuri fantasmi (paure e sospetti) caratteristici  dello Stato di polizia che inibiscono qualsiasi sindacato di compatibilità con i principi garantisti propri di un moderno Stato di diritto quale presumo ancora essere il nostro.

Nonostante l’assoluta rilevata indeterminatezza dei labili presupposti normativamente dettati, la valutazione in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità procedente perviene solo per il caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, avvalorata dall’esegesi condotta dal G.A., fa sì che il sindacato di quest’ultimo sulla legittimità dell’informativa antimafia resti confinato in un ambito estremamente ristretto dal quale rimane paradossalmente del tutto estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento di interdittiva.

Invero le situazioni indiziarie del descritto sistema di tassatività sostanziale postulate dalla III^ Sezione del Consiglio di Stato ipoteticamente atte a sostenere ed integrare le, comunque, ribadisco, improprie e labili indicazioni legislative, conducono, sempre nella ricordata ottica del G.A., a considerare legittimi i provvedimenti interdittivi anche in presenza di provvedimenti contrari del Giudice Penale allorquando le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni che non superino la soglia della punibilità penale, si pongono comunque, soltanto però sul piano meramente ed ingiustificatatamente ipotetico, quale momento sintomatico (e qui è il disastro ermeneutico) della contaminazione mafiosa.

In buona sostanza, mercé l’avallo giustiziale sopra riferito, si consente al Prefetto di utilizzare un margine di accertamento e di apprezzamento discrezionale di ampiezza senza precedenti, nella ricerca e nella valutazione dei fatti sintomatici di eventuali connivenze o collegamenti di tipo mafioso.  

Siffatto costrutto concettuale non appare condivisibile, perché l’interdittiva al di là della, a mio avviso, non corretta attuale vulgata giurisprudenziale, non può mai essere considerata atto preventivo di natura cautelare in senso proprio, bensì, momento provvedimentale definitivamente conclusivo del procedimento.

A ben riflettere, così come allo stato concepito, esso si manifesta piuttosto come documento di stampo meramente politico, anzi sociologico, una misura di astratta previsione sociale quasi sempre sorretta dall’ingiustificato ed insignficante stereotipo rappresentato dalle generiche informazioni riferite come acquisite “dalle Forze di Polizia” che, invece, al contrario anche di quanto erroneamente ritenuto dall’attuale giurisprudenza, riflette unicamente effetti defintivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra impresa e P.A.

In ragione di questa che a me appare evidenza più che lapalissiana, ritengo si possa  intravedere la possibilità di una svolta capace finalmente di iniziare ad erodere il tetragono monolite normativo avallato da una pressoché monocorde intepretazione giustiziale che sin qui ha ipotizzato, salvo rare eccezioni, di delineare concettualmente un’isola che non c’è, i cui paradigmi di riferimento sono rappresentati dalla classificazione dell’istituto quale fattispecie di pericolo che viene considerata vera e propria pietra angolare del sistema normativo c.d. “antimafia” a cui è riconnessa la precipua finalità di liberare il corpo sociale dalla pressione delle organizzazioni criminali attraverso l’ausilio dell’ormai standardizzato evanescente criterio probatorio del più probabile che non” – peraltro espunto dal suo ambito naturale e strumentalmente riadattato alla bisogna – fondato su indizi suppostamente ritenuti gravi, precisi e concordanti  e su dati conoscitivi utilizzabili, sia di natura tipica che atipica.

L’auspicata svolta, peraltro già dogmaticamente individuata ed espressa sia pure da un numero ristretto di giuristi, spero possa trovare finalmente una sua degna collocazione anche in sede giustiziale, con grande soddisfazione e plauso, per quel che vale, da parte mia.

La breccia nel muro del costante e monocorde leitmotiv delle decisioni giustiziali sin qui espresse, ciascuna delle quali pressoché sovrapponibili l’una all’altra, in quanto tutte rigorosamente informate e soggiacenti al mantra del politicamente corretto va aperta con il coraggio della ragione che deve necessariamente porsi in contrasto con l’ovattato e primordiale istinto di conservazione del pedissequo stare decisis del non esaltante orientamento giustiziale sin qui consolidato e che qui sommessamente ma con forza ritengo di poter contestare proprio sul piano della sua  costruzione  logica.

Con spirito di presidio ermeneutico e culturale degno assertore dei principi propri   dello Stato di diritto, occorre avere il coraggio e l’onestà intellettuale di porre un argine ad interdittive di mafia arbitrarie.

In ragione di ciò ritengo del tutto indispensabile chiarire, anche in sede giustiziale oltre che legislativa, perché mai il codice antimafia, nella parte in cui, con un provvedimento fondato su supposti “risalenti rapporti”, – viepiù in assenza di sentenze di condanna  e senza che sia emerso nel tempo, alcun condizionamento, nelle decisioni cruciali per la vita della società interdetta, ad opera di esponenti della criminalità – non preveda il necessario contraddittorio in favore del soggetto destinatario del provvedimento c.d. antimafia.

Non appare privo di significato rilevare come mai il G.A. non valuti in alcuna misura il fatto che il provvedimento di interdittiva sottoposto al suo esame di garanzia sociale e giuridica qualificata sia stato assunto dall’autorità prefettizia senza alcun contraddittorio tra la P.A. ed i soci dell’impresa, e, quindi, in totale assenza della essenziale fase partecipativa del procedimento amministrativo in ragione (per vero soltanto astrattamente commendevole) della necessità di anticipare l’eventuale pericolo di infiltrazione. 

Non riesco a comprendere come mai il  G.A., non prenda in considerazione alcuna l’evidenza che il provvedimento di interdittiva non costituisce misura provvisoria e strumentale bensì si connota quale “atto conclusivo del procedimento avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili ed inemendabili”, dal momento che l’interdittiva ha come effetto “la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore (a tal proposito è agghiacciante la frase contenuta in una sentenza del G.A. nella quale si è sostenuto che l’interdittiva “è come un diamante: eterna). Infatti la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che da quel momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei rapporti con la P.A. dal quale vengono estromessi, costituisce l’equivalente di una sostanziale condanna a morte.

In ogni caso non appare revocabile in dubbio che il provvedimento di interdittiva giammai possa essere considerato parte dei provvedimenti interinali e cautelari che consentono di escludere la necessità del contraddittorio, viepiù che la doverosa partecipazione al procedimento amministrativo, che deve essere garantita attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario del ricordato provvedimento interdittivo, “non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui riguardi opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al provvedimento conclusivo”. In buona sostanza il contraddittorio tra Prefetto ed impresa “assume importanza essenziale ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove ed argomenti convincenti per ottenere un’interdittiva liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli”.

Inoltre, e questa è cosa di non poco momento, va considerato che l’effetto del provvedimento interdittivo, così come oggi normativamente concepito e giustizialmente interpretato, determina la sostanziale messa al bando dell’impresa, senza che di contro sussistano, il più delle volte, motivi giuridicamente validi che possano escludere a priori la previsione del contraddittorio stesso.  

Va inoltre considerato, cosa che il Consiglio di Stato non ha purtroppo mai fatto, che la garanzia partecipativa con riferimento alle interdittive antimafia assume speciale ed ineludibile importanza “in relazione ad almeno tre circostanze”.

La prima è rappresentata dal fatto che le valutazioni prefettizie possono fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore ex articolo 84, 4° comma, del Decreto Legislativo n°159/2011 (c.d. reati spia), mentre altri elementi fattuali (c.d. a condotta libera) sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento dell’Autorità amministrativa che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa (cfr. articoli 91, 6° comma, Decreto Legislativo n°159/2011) anche da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali alle attività sociali, ovvero da elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare la criminalità organizzata o esserne in qualche modo condizionata (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. III, 30.1.2019 n°758).

La seconda è che tale sopra espressa ipotesi di condizionamento indiretto comprende un numero di evenienze davvero molto significativo e, comunque, appare di difficile distinzione rispetto ai casi di imprese che subiscono la criminalità organizzata, risultandone vittime.

La terza, infine, è costituita dall’obiettiva evidenza che il G.A., chiamato a soppesare la gravità delle circostanze poste a base della valutazione prefettizia, è abilitato ad esercitare un sindacato giurisdizionale estrinseco sull’esercizio di siffatto potere che comporta un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consentendo al medesimo di sindacare l’esistenza o meno dei fatti stessi (eccesso di potere quale vizio della funzione, mai purtroppo sin qui a sufficienza valutato).

In considerazione delle su espresse ragioni non appare revocabile in dubbio che il contraddittorio tra il Prefetto e l’impresa nella fase procedimentale assume un’importanza davvero rilevante ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa stessa la quale ben potrebbe offrire al Prefetto prove materiali ed argomentazioni convincenti, di rilevanza e pregnanza tali da ottenere un provvedimento di liberatoria dell’interdittiva anche in presenza di elementi ed indizi c.d. sfavorevoli.

Un’ulteriore considerazione, di non poco momento, va altresì aggiunta  a sostegno del ragionamento sin qui da me espresso e che può additivamente far ritenere impropria l’attuale giurisprudenza del Consiglio di Stato, nasce da una recentissima ordinanza  (n°732 dell’11.12.2020) resa dal TAR della Calabria, Sezione distaccata di Reggio Calabria, la quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 92 del Decreto Legislativo 6.11.2011 n°159, per contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Carta, con il diritto al lavoro di cui all’articolo4 e con il diritto di difesa di cui all’articolo24, sempre della Costituzione.

Il prefato articolo 92 del Decreto Legislativo n°159/2011 infatti, a sentire per vero non improprio del predetto giudice a quo, genera una più che evidente disparità di trattamento tra i soggetti destinatari di misura di prevenzione e quelli attinti da provvedimento di interdittiva antimafia, laddove in quest’ultima materia esso preclude, all’autorità amministrativa irrogatrice il provvedimento (Prefetto) la possibilità di escludere – al contrario di quanto invece attribuisce all’AGO, ex articolo 67, 5°comma del D.lgs n°159/2011 – le decadenze ed i divieti previsti, nel caso non infrequente, di mancanza dei mezzi di sostentamento materiali ed economici all’interessato destinatario del provvedimento di interdittiva generica, dal momento che ciò concretizza appunto l’evidente ed irragionevole disparità denunciata con la prefata ordinanza.  

Alla luce delle prefate non secondarie considerazioni e della putroppo  draconiana chiusura operata sin quì dal G.A., con il granitico e monocorde indirizzo giurisprudenziale non condiviso, ritengo che al fine di affrontare e risolvere in termini di giustizia sostanziale la questione delle interdittive generiche e per riportare fuori dall’ombra in cui è caduto l’intero sottosistema della prevenzione, sia necessario, in sede legislativa, ridare forza e vigore al lineare meccanismo delle garanzie e dei diritti fondamentali indispensabili e propri di uno Stato di diritto.

In buona sostanza, occorre un mirato intervento legislativo che si proponga finalmente di abbandonare  l’idea del rigore destruente fin qui disegnato e di dar vita ad un quadro normativo funzionalmente più costruttivo in cui lo Stato non abbia la preoccupazione di bandire comunque le imprese che hanno subito (in forma soggiacente) tentativi occasionali di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, incidendo negativamente anche interessi di soggetti estranei irrazionalmente ed inopinatamente coinvolti.

Il principio di legalità sotanziale, infatti esprime un’esigenza del tutto opposta e diversa dall’ermeneusi sin qui seguita dal Consiglio di Stato. E ciò perché, se è vero che con disposizione legislativa appare logico e possibile predeterminare sia il reale potere della Amministrazione che la tipologia del relativo provvedimento che deve dalla stessa essere emanato, è altrettanto fondato il dato paradigmatico ed essenziale che di siffatto potere debbano, sempre ed in ogni caso, essere correttamente definiti caratteri e confini.

Quello che invece il G.A. ha fatto, è di aver determinato una situazione artificiale di prosopagnosia in cui non si riescono ad apprezzare differenze di sorta e tutto indistintamente si confonde nel marasma di quella indefinita nebulosità concettuale   ben rappresentata dall’antico ed icastico adagio secondo il quale al buio tutti i gatti sono bigi.  

[Intervento tenuto il 15 gennaio 2021 nella Tavola Rotonda condotta in modalità webinar, piattaforma Zoom, sul tema “Distorsione delle informative interdittive antimafia e scioglimento dei Comuni” organizzato dai Rotary club di Nicotera Medma, Gioia Tauro, Tropea e dall’Ordine degli Avvocati di Vibo Valentia, moderata da Giacomo Francesco Saccomanno (Giornalista e Responsabile Scientifico della Fondazione A. Scopelliti) e con la partecipazione di Luciano Maria Delfino (Componente del Comitato Scientifico di Filodiritto e Componente del Comitato Scientifico di Milano Vapore), di Nicola Durante (Presidente di Sezione del T.A.R. Campania – Salerno), di Gelsomina Silvia Vono (Senatore della Repubblica), di Francesco Neri (Consigliere della Corte di Appello di Roma) e di Cesare Mirabelli (Presidente Emerito della Corte Costituzionale)]

[1] Delfino L.M. “L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia” in Filodiritto editore, rivista on line www filo diritto.com, gennaio 2016; Delfino L.M. “Ancora qualche riflessione ermeneutica quanto meno di buon senso sull’abnorme potere discrezionale della P.A. procedente in tema di interdittive” in Filodiritto editore, rivista on line www filo diritto, com, ottobre 2016; Delfino L.M. “Lo scioglimento per mafia dei Consigli delle Amministrazioni Locali - (Il faut défendre les principes et les valeurs de l’Etat de droit)” in Filodiritto, rubrica “Officina giuridica delle libertà”, www.filodiritto.com, giugno 2019; Delfino L.M. “Eppur si muove: prove qualificate di erosione di un monolite illiberale che ….…. infiniti addusse lutti ai principi ed ai valori …… dello Stato di diritto” in Filodiritto, rubrica “Officina giuridica delle libertà”, aprile 2020;

Last Updated ( Giovedì 11 Marzo 2021 13:27 )

Un sogno liberale:evellere il funzionarismo della burocrazia

 Questo contributo del Prof. Avv. Luciano Maria Delfino è inserito nella parte specialistica del volume “MILANOPUNTOZERO MANIFESTO D’INTENTI 2021 – GUARDARE AL FUTURO CON OCCHI PULITI” di cui è autore l’Avv. Giampaolo Giorgio Berni Ferretti Presidente di “MilanoVapore” in corso di pubblicazione per i tipi di Colosseo editore di Andrea Menaglia - Roma 2020]

Questa nostra stagione sconquassata dall’esperienza dolorosa e devastante dell’emergenza sanitaria imposta dalla ferocia del corona virus (Sars-CoV-2) – anche a causa dell’oggettivo e non esaltante spettacolo di efficienza offerto da tutte, senza distinzioni, le istituzioni di governo e di gestione – ci consegna un Paese affondato nelle sabbie mobili di quella che, anche in questa occasione, si è dimostrata essere la vera esiziale patologia del sistema Italia: la burocrazia.

Il potere burocratico, in quanto portatore di propri e strutturati interessi, si manifesta, al pari di un nodo gordiano che avviluppa ed attanaglia il (nostro) tessuto sociale e che evidenzia, in forma assolutamente paradigmatica, il fenomeno ormai divenuto devastante della colpevole sottrazione delle libertà civili da parte di uno Stato che ha ampliato a dismisura – fra l’altro, e per assurdo, con l’avallo di un’opinione pubblica drogata da quel fenomeno che tecnicamente va sotto il nome di isteria collettiva – il suo ruolo sino al punto di giungere a snaturare nella sostanza il modello costituzionale della Repubblica.

A tale non fisiologico risultato, nel considerato periodo di pandemia, si perviene attraverso l’utilizzazione di un’abborracciata quanto sterminata, in termini quantitativi, produzione legislativa di rango primario e secondario, colpevolmente aggravata dall’abuso continuo e costante dello strumento della decretazione d’urgenza e dallo sconsiderato ricorso ai decreti ministeriali, in particolare ai DPCM, cui si aggiungono le non poche ordinanze delle Regioni (oltre 200), e le migliaia di ordinanze emanate dai Sindaci di tutto il Paese.

Disposizioni tutte non chiare ed il più delle volte neppure ragionevoli ed addirittura, per quanto attiene ai decreti, costituzionalmente illegittime sotto il profilo formale, per palese violazione della riserva di legge (assoluta) postulata dalla Carta giacché, come è noto, l’esercizio del potere in democrazia va formalmente assoggettato a legge e per l’additiva, ulteriore considerazione che gli stessi non possono, come invece è stato fatto, essere portatori di un’inammissibile, perché generica, delega di poteri, in ragione dell’obiettiva evidenza che il rispetto della Costituzione e delle leggi costituisce un dovere assoluto per l’autorità.

Ci troviamo, infatti, davanti ad un profluvio di norme che si sovrappongono le une alle altre che promanano, come sopra ricordato, da soggetti istituzionali diversi (Stato, Regioni, Comuni) che hanno in comune soltanto l’impulso vocazionale (fil rouge) di regolare con ossessiva pervicacia ognuno e tutti gli aspetti disciplinari presi in considerazione piuttosto che l’intelligenza di delineare, come sarebbe stato più logico, una articolata e flessibile cornice di regole affidando il sicuramente più produttivo loro campo di azione alla consapevole responsabilità comportamentale dei cittadini, come si è fatto in altri Paesi.

La descritta irragionevole ipertrofia legislativa, sostanziatasi nella inutiliter data elefantiaca produzione di centinaia di pagine, determina, senza tema di smentita, una facilmente rilevabile condizione di incertezza interpretativa ed un del tutto oggettivo e comprensibile smarrimento psicologico nella popolazione che si trova a doversi destreggiare tra norme fra loro contraddittorie e di contenuto obiettivamente incerto le quali decisamente generano un indiscutibile, pesante clima di sfiducia nei cittadini e nel contempo producono un profondo scetticismo nei confronti delle istituzioni di governo che, ex se, sicuramente contribuisce alla delegittimazione delle istituzioni medesime.

Le troppe norme che limitano la libertà dei cittadini, infatti, rendono, de jure et de facto, il potere dello Stato irresponsabile in quanto le stesse invece che arginare detto potere indiscutibilmente lo rafforzano.

A siffatta già discratica situazione va aggiunto che – sia sotto il profilo quantitativo che soprattutto sotto l’aspetto qualitativo – le prefate norme, diverse sui singoli punti di trattazione, non seguono un filo logico unitario, tant’è che i cittadini e le stesse forze dell’ordine in sede applicazione e di controllo delle medesime non sanno ben orientarsi su quale comportamento assumere.

Un incredibile ma purtroppo reale guazzabuglio questo, che porta ad identificare nelle assemblee legislative la prima e più rilevante sede nonché perniciosa causa della, già di per sé impossibile a gestire, burocrazia italiana.

Non appare inutile rilevare che siffatto modus operandi costituisce ex se la più importante e paradigmatica delle prassi tipiche dei momenti di crisi che affliggono il funzionamento fisiologico di qualsivoglia (non solo italiano) modello di democrazia rappresentativa.

Ad una situazione già di per sé compromessa, la deflagrazione del virus imprime una forte accelerazione al richiamato e già in atto processo di disgregazione del modello costituzionale, che rimane ulteriormente inciso, e purtroppo in misura estremamente significativa, oltre che dall’emergenza salute anche dalla intervenuta privazione delle libertà fondamentali dei cittadini (di movimento, di riunione, di culto, di lavoro, di tutela del risparmio, di istruzione, di iniziativa economica etc.), nonché dalle ulteriori limitazioni, imposte non con legge (DPCM) allo stesso diritto di proprietà; diritti tutti riconosciuti come tali dalla Carta costituzionale.

Ciò che differenzia una società libera e liberale, rispetto a quelle c.d. pianificate, risiede nel fatto che nella prima condizione “tutto è permesso a meno che non sia espressamente vietato” mentre nella seconda “nulla è permesso se non esplicitamente previsto”.

L’intervento contingente dell’apparato nel suo complesso, messo in campo per fronteggiare l’emergenza pandemica, dimostra di orientarsi verso la seconda ipotesi di società. Esperienza, questa, non nuova nel Paese che resta, in tempo anteatto all’emergenza, preceduta, fra le tante, dall’aberrazione dell’inversione dell’onere della prova in campo tributario in ragione della quale è paradossalmente il contribuente a dovere dimostrare la propria innocenza e non già l’amministrazione a provare la colpevolezza di quest’ultimo.

Quanto rilevato costituisce l’attestazione e la conferma che ci troviamo davanti ad una classe politica assolutamente inadeguata e che per ciò stesso si consegna per essere eterodiretta all’apparato burocratico il quale, per sua (in)cultura intrinseca e per mancanza di preparazione specifica, non è in condizione di mettere in campo alcuna seria e producente capacità gestionale, bensì soltanto l’unica triste idoneità di abborracciare, attraverso un processo di insana stratificazione, regole su regole, il più delle volte di dubbia caratura qualitativa.

La situazione pandemica oltre che metterci di fronte ad una incredibile, sotto il profilo della gravità, emergenza di tipo sanitario ci pone altresì anche al cospetto di un’altrettanto drammatica congiuntura di natura economica che fa emergere, con incombente rilievo, la necessità di dover operare in direzione di un rilancio produttivo del sistema Paese.

Programma la cui realizzazione effettuale non va disgiunta dall’altrettanto indifferibile esigenza di prontamente agire ed incidere su un organismo, alla prova dei fatti, inidoneo, così com’è, a porsi concretamente l’obiettivo del raggiungimento della prefata finalità di rimediare all’immanente disastro economico e finanziario, senza, prima o nel contempo, dar vita e corpo ad una concreta ed effettiva rimodulazione dell’intero assetto ordinamentale.

Infatti, nelle congiunture importanti, siano esse di interesse nazionale che di carattere internazionale, la formula adeguata per far fronte all’incalzare di eventi eccezionali è, unicamente, quella di avere (e non è questo il caso dell’Italia) o di riuscire ad approntare un asset istituzionale caratterizzato da strutture fondamentalmente agili che consentano al medesimo organismo di adattarsi con intelligente flessibilità al mutamento delle condizioni economiche, finanziarie e sociali che intervengano o che possano succedersi in un tempo di crisi come l’attuale.

Non appare inutile ricordare che la parola crisi, oggi purtroppo tanto minacciosamente ricorrente, anche sui mass media, è sostantivo di etimologia greca. Essa deriva dal verbo krino (dividere, separare), ed è espressione concettuale propria delle situazioni di difficoltà e che ha quale paradigma di riferimento il complesso sistema dei valori e delle relazioni istituzionali, oltre che di quelli di natura soggettiva ed individuale, e non già, come talvolta si vuole fare apparire, di natura meramente lessicale.

Crisi significa sofferenza di un modello di vivere che, comunque, ha già in sé gli anticorpi necessari per rinnovarsi e divenire un quid novi. Crisi significa, altresì, dovere scegliere quali bisogni e quali necessità soddisfare, e quali, invece, dover sacrificare. Crisi indica ancora mutamento di rotta, nel senso che i valori che hanno funto sino ad una certa data da bussola o da radicamento, sono in forte sofferenza, per cui occorre avere la forza e la capacità di determinare un nuovo orientamento al fine di procedere al ripristino ovvero al superamento proprio di quei valori nell’ottica del perseguimento di migliori e più funzionali traguardi[1].

L’attuale realtà cronotopica, riflette, invece, un’idea ed un modello di organizzazione dal quale si evince ormai a chiare note che lo Stato, con l’insieme del suo apparato amministrativo e politico, si è, sin qui, via via snaturato rispetto al modello costituzionale, tanto – e ciò è molto grave – da dimostrare, con strabica supponenza, di riflettere una totale o comunque gravissima assenza di fiducia nei confronti dei cittadini e tanto da considerare, in nome di ideologie pauperistiche oggettivamente prive di senso logico il profitto imprenditoriale come disvalore assoluto.

In ragione di siffatto improprio e distorto retropensiero, il sistema istituzionale del nostro Paese – anche con l’ausilio del ricorso all’imposizione di un sistema burocratico nel suo complesso immanentemente ossessivo – interpone una paratia, anzi una vera e propria diga organizzativa fondata su un’incomprensibile, sciagurata ed illogica ostilità nei confronti dei cittadini, delle imprese e del profitto imprenditoriale. Siffatta, in verità, impropria ed insensata azione di apparato – fra l’altro e malauguratamente realizzata, con una visione decisamente e drammaticamente d’antan – mortifica qualsiasi ragionevole sviluppo delle attività produttive degli italiani.

Per verificare l’attendibilità di siffatta e purtroppo amara considerazione è sufficiente far mente locale a tutto un percorso artificiosamente costellato di forche caudine messo in campo dal potere burocratico e che si sostanzia:

nella configurazione di una fiscalità eccessiva;

in un paradossale modello sistemico che rende difficile l’accesso al credito;

nella richiamata farraginosa produzione legislativa e regolamentare, la cui preoccupazione pare soltanto essere quella di imbastire lacci e laccioli per rendere infernale la vita dei cittadini;

in un modello di giustizia esasperatamente lento nella sua applicazione concreta tanto che i suoi decisa appaiono comunque tardivi ed inefficaci, oltre che strutturalmente inidonei a soddisfare in tempi utili qualunque lecito interesse sottoposto al suo sindacato;

in una giurisdizione ed in una giurisprudenza pateticamente aggressive;

in un complesso di attività di controllo sulla qualità e sulla quantità delle prestazioni lavorative sostanzialmente evanescente a causa delle norme sulla privacy;

nel fatto che sono pressoché indefiniti, nel numero e nella loro singola storia, gli atti abilitativi all’esercizio di attività soggette a concessione e/o autorizzazione;

in procedimenti amministrativi ciascuno dei quali connotato dalla propria endemica e defatigante complessità; in una miriade di adempimenti, termini e scadenze spesso inutili e che producono, fra l’altro, un enorme costo di gestione;

e l’elenco potrebbe ancora continuare.

Al cospetto di tale obiettiva situazione di fatto e di diritto svanisce nel nulla la primigenia e di scuola concezione di burocrazia intesa quale “insieme di apparati e di persone al quale è affidata, a diversi livelli, l’amministrazione di uno Stato o anche di enti non statali” sorretta dalla lodevole intenzione di semplificare il rapporto tra i cittadini e le leggi, perché è ormai evidente che la medesima nella sua realità effettuale non è diventata altro che obbligato percorso ad ostacoli per i consociati dal momento che, come sostenuto con paradossale brillantezza da Prezzolini, nel nostro Paese “nulla si può conseguire per vie legali, neppure le cose che sono legali.

In buona sostanza l’attuale apparato burocratico attraverso la subdola ed ideologica nel tempo archiviazione dei metodi, delle procedure e dei criteri semplici e propri della democrazia liberale, non fa altro che svilire sino al punto da rendere evanescenti tutte le liturgie democratiche del sistema Paese pur tenendo, ipocritamente, le stesse formalmente in vita. Ed in ragione di questo suo anomalo atteggiarsi che il medesimo apparato si dimostra irrispettoso delle libertà e del tutto incapace di reagire tanto alla crisi economica che al modello costituzionale che sostanzialmente ha eviscerato con diabolica perseveranza.

A ben riflettere il sistema nel suo complesso (politico, legislativo, amministrativo e giudiziario) appare oggi come un idolo pagano (Moloch) che con studiato sadismo si occupa ipocritamente di assicurare lo sviluppo di un criterio di uguaglianza non di partenza, come dovrebbe essere in un normale Stato di diritto, bensì di arrivo, limitando l’esercizio delle libertà che permettono ai consociati (cittadini) di distinguersi e di realizzarsi, inadatto com’è, per congenita ed intrinseca incapacità di dare forma logica al proprio pensiero gestionale e ripiegando, peraltro abbastanza confusamente, sui principi informatori dello Stato etico che nel pensiero filosofico sono riconoscibili dalla sintesi tra una tesi, rappresentata dal diritto, e da un’antitesi, impersonata dalla moralità.

In pratica il modello italiano, così come scriteriatamente dipanatosi negli anni, si manifesta, oggi più che mai, come la informale riedizione, abbastanza pasticciata, di un apparato che diviene arbitro assoluto del bene e del male, fondato sulla declinazione apparentemente legittima di un astratto e peraltro non corretto postulato: educare il popolo per realizzare un giusto sistema sociale. In questo disegno la compressione delle libertà, la gamma di restrizioni e le correlative sanzioni assumono un ruolo simbolicamente decisivo e consentono allo Stato di affermare la propria supremazia nonché di dimostrare la giustezza etica delle proprie azioni.

In questa arraffazzonata logica diventa normale la tassazione di rapina, le montagne di scartoffie, i regolamenti kafkiani, l’ostilità alle partite IVA.

La stessa assurda strutturazione tecnica dell’attuale legislazione antimafia concepita e messa in campo sulla scorta dell’illusoria e demagogica considerazione di impedire i disdicevoli effetti della corruzione, alla prova dei fatti si rivela, nella migliore delle ipotesi, una normazione fondata su astratte supposizioni, il più delle volte non corroborate da prove, e fatta di verifiche spesso inefficaci atteso che quasi mai, se non apoditticamente, riesce a rilevare l’effettività delle infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto sociale. La compressione immotivata degli emolumenti e dei diritti, la forte ostilità nei confronti delle autonomie, ciascuna delle quali e tutte insieme, costituiscono una severa ed ingiustificata condanna per tutti, soprattutto per il Sud.   

Il termine burocrazia, o meglio il suo oggi più che evidente eccesso di funzione, viene percepito ed identificato dalla pubblica opinione quale sinonimo di cattiva amministrazione, sia sotto il profilo soggettivo (impreparazione, incapacità ed inadeguatezza dei dipendenti delle P.A.), sia sotto il ben più importante aspetto oggettivo (ipertrofico numero di norme e di procedimenti, disorganici, farraginosi, contraddittori e spesso incomprensibili e, comunque, di difficile applicazione), all’interno dei quali il potere assume la forma dell’atto, con conseguente ed additivo aumento di responsabilità personali, di meccanismi di controllo e di soggetti controllori.

E anche se per vero non occorreva l’attuale crisi da corona virus per rendersi conto dello stato comatoso in cui versa l’insieme degli apparati burocratico-amministrativi del nostro Paese, va comunque evidenziato che, il presente momento, fra l’altro, intriso di profonde difficoltà di natura economica, sociale ed istituzionale rende ormai non più procrastinabile l’esigenza dell’intervento, oltre che di straordinarie misure economiche, finanziarie e fiscali, anche di un’altrettanto massiccia opera di affrancamento dalle pastoie del vuoto formalismo imperante, allo scopo, questo sì nobile, di consentire una catartica liberazione dallo stanco, bizantineggiante e ridondante sistema organizzativo oggi predominante, così da permettere – sempre all’interno della cornice di garanzia e di tutela dell’interesse pubblico – la piena e reale valorizzazione di tutte le energie imprenditoriali presenti nel Paese, di interventi di incondizionato supporto ai nuovi investimenti nonché di un’opera di marcato sostegno alla facilitazione dei consumi.  

In buona sostanza appare di primaria necessità dar vita a delle istituzioni pubbliche che nel loro complesso siano nella condizione oggettiva di esprimere un corpus disciplinare capace di disboscare l’incolto terreno delle amministrazioni dall’attuale inestricabile e pletorico groviglio di norme, di inveterati divieti e di non logici comportamenti, al fine di assicurare ai consociati strumenti efficaci ed efficienti atti a garantire stabilità, semplicità, certezza e fiducia alle imprese ed ai cittadini di questo nostro martoriato Paese.                                                     

In ragione della descritta esigenza non appare revocabile in dubbio come vada ulteriormente stigmatizzato l’insopportabile fardello di tale già rilevata oppressione burocratica il cui peso si riflette esizialmente nel mondo economico e sociale, atteso che la burocrazia che ci soffoca ed affligge non costituisce altro che la tomba di qualsivoglia opportunitàvirus (burocrazia) che non si trasmette con le goccioline, ma con la deprimente consuetudine, il parassitismo e l’assuefazione e nei cui confronti non c’è immunizzazione che tenga, anzi non esiste proprio vaccino.

Non sfugge a nessun essere minimamente raziocinante che l’ansia irrazionale ed astratta di fronteggiare la corruzione nella e della P.A., assieme alle altrettanto giuste esigenze di contrastare i rischi di infiltrazione mafiosa sostanziano, nell’attuale assolutamente e concettualmente imperfetto quadro normativo, le prime e principali cause dell’ingessamento del nostro Paese[2].

A questo va, altresì additivamente associata l’obiettiva evidenza che non è soltanto l’attuale infelice normativa a creare complicazioni, quanto, spesso – ed è quello che qui voglio a chiare note evidenziare – anche l’incombente rischio di una ermeneusi giurisprudenziale delle stesse, arzigogolata e punitiva, che, attraverso l’uso indiscriminato di cavilli e norme di dubbia qualità ed efficacia, avalla, paralizza e penalizza il corretto facere delle Amministrazioni.

Non è inutile ancora sottolineare, al fine di ulteriormente evidenziare il tumultuoso marasma in cui versa l’intera impalcatura della macchina burocratica, che la stessa fase di amministrazione attiva, attraverso i suoi funzionari, risulta, quasi sempre, avviluppata ed attanagliata dal timore, di essi agenti, di soggiacere alla possibile contestazione dell’ipotesi di danno erariale nonché a quella di abuso d’ufficio.

La descritta reale situazione è, purtroppo, il riflesso dell’obiettiva evidenza che il legislatore attuale abdica, in nome di immaginifiche, supposte emergenze, a quello che è, o comunque dovrebbe essere il suo peculiare compito, ossia l’obbligo di disciplinare la realtà in coerenza con i valori ed i bisogni della comunità e non già di umiliare l’assetto civile.

In ragione di tale difficilmente contestabile, discratica situazione legislativa e comportamentale, entrambe obiettive conseguenze dell’isteria contagiosa rappresentata dalla pervicace ossessione di combattere, anche attraverso misure illiberali ed insensate, invece che con le regole proprie dello Stato di diritto, il (detestabile) fenomeno dalla corruzione dell’infiltrazione mafiosa nel corpo del sistema politico ed economico del Paese, si è irrazionalmente giunti – sulla base di strombazzate, apodittiche, mitizzate e supposte situazioni di pericolo emergenziale - a paralizzare il sistema nel suo complesso attraverso l’imposizione di una rete di allucinante oppressione fatta di inestricabili lacci e laccioli dalla quale risulta materialmente impossibile divincolarsi.

Le interdittive antimafia[3];

lo scioglimento per decreto dei consigli degli enti locali;

le strutturali lentezze delle procedure di Consip; il Codice degli appalti, espressione normativa intrisa di obiettivi nonsense e di paralizzanti criticità e la cui plastica inutilità pratica resta dimostrata dal fatto che senza il “gabbio” delle sue norme e dei suoi non felici postulati si è potuto ricostruire, e nel giro di poco più di un anno, a Genova, il nuovo ponte progettato dall’arch. Renzo Piano in sostituzione del crollato ponte “Morandi”, nonché realizzare, nel giro di qualche settimana l’ospedale di emergenza in Fiera a Milano (idea progettuale, fra l’altro, specularmente riprodotta, anche nelle modalità di esecuzione, a Berlino dai tedeschi) e l’ospedale pandemico di Civitanova Marche;

la sostanziale sopravvivenza dell’assurdo criterio del massimo ribasso nelle gare che porta con sé l’ignobile fardello di consentire la realizzazione di opere pubbliche, talvolta neppure portate a compimento, e, fra l’altro, di discutibile sicurezza strutturale, poste in esecuzione attraverso una rete - essa si da colpire - di indegne connivenze; il mancato controllo da parte della mano pubblica e/o l’assenza di monitoraggio continuo degli standard di sicurezza delle opere nel tempo, al fine di evitare eventi negativi di significative proporzioni (come ad esempio è avvenuto nel caso del viadotto della Valpocevera, ponte “Morandi” o, di recente, dell’accartocciamento del ponte di Caprignola che collega la provincia di La Spezia a quella di Massa);

la creazione dell’ANAC (intesa quest’ultima autorità addirittura non come ente di consulenza e di analisi di dati a vantaggio e supporto delle P.A. bensì quale ennesima, non necessaria ed ulteriore soffocante presenza nel già più che pletorico novero degli organismi di controllo), ne costituiscono palmare riprova.

L’insieme del complesso di questi organismi – in uno con la sovrapposizione nel tempo di norme, regolamenti, procedure ed adempimenti, determinano l’incertezza del diritto, dei diritti e dei doveri nonché una sempre maggiore complicazione dell’attività amministrativa ed economica, e, fra l’altro, fungono, ognuno e tutti, da alibi e da comodo usbergo per amministratori e funzionari pavidi, i quali, invece di esercitare con onore le proprie funzioni, si accucciano dietro siffatto paravento, aspettando comunque di avere contezza della più o meno illuminata consulenza di detti organismi prima di assumere qualunque decisione, dalla più insignificante alla più importante, facendo così perdere, nella migliore delle ipotesi, del tempo prezioso nel provvedere.

Tempo che come si sa, oltre che essere un bene fra i più preziosi se non il più prezioso dell’agire umano è anche connotato essenziale di ogni funzionale scelta strategica sia essa di natura giuridica che economica anche delle P.A.[4].

Il codice degli appalti non va riscritto, va eliminato e sostituito come è avvenuto per Genova con il lasciapassare all’utilizzazione delle direttive europee in subiecta materia che esprime un più efficace e producente modello sistemico, alternativo e consequenziale che può essere replicato tout court in ogni parte d’Italia e che riduce radicalmente il numero di adempimenti, di procedimenti e di vincoli, regole e regolette consentendo il felice espletamento di un numero maggiormente cospicuo e produttivo di gare.

Che senso ha, infatti, se non per determinare inutili perdite di tempo (anni) presentare una serie di progetti prima di pervenire a quello definitivo e poi ancora a quello esecutivo per giungere infine all’appalto, a cui vanno aggiunti le impedenze metereologiche ed il rischio di un ulteriore rallentamento dei tempi stessi rappresentato dall’incombente e non peregrina eventualità di esperimento, da parte dei non aggiudicatari, di gravami giurisdizionali davanti agli organi della Giustizia Amministrativa (TAR e Consiglio di Stato).

In quest’ottica e con questo metodo di apertura al fare, obiettivamente e profondamente innovatore rispetto al deprimente status quo ritengo, vadano mobilitate tutte le opere pubbliche già autorizzate nei bilanci di competenza di Stato, Regioni ed Amministrazioni locali, insulsamente bloccate dalle attuali farraginose procedure e riguardanti i settori dell’edilizia scolastica, della difesa del suolo, delle infrastrutture viarie (si pensi alla Gronda di Genova ed alla SS 106 Jonica in Calabria), delle opere urgenti, anche di manutenzione, afferenti ponti e strade tanto ad opera di imprese pubbliche, come ANAS, e private, quali ad esempio Autostrade per l’Italia, dei piani per l’alta velocità ferroviaria anche per il Sud e per la valorizzazione delle reti ordinarie, dei progetti di lavori del sistema portuale del Paese, dei programmi di rifacimento e di riparazione degli innumerevoli acquedotti ammalorati.  

Di fronte a tale evidente disastro, che, irragionevolmente e senza scusanti, destabilizza e violenta i fondamenti propri dello Stato di diritto e gli altrettanto meritevoli di tutela diritti fondamentali dei cittadini nonché determina, in nome di un supposto principio di legalità – peraltro assurdamente distinto da quello di libertà (Piero Calamandrei infatti ci ha insegnato: “non può esservi legalità senza libertà”) – mal interpretato ed altrettanto peggio normativamente espresso, la cancellazione dal mondo del lavoro di imprese e lavoratori laboriosi ed indefessi, con il risultato di pressoché azzerare o comunque gravemente compromettere l’economia delle stesse imprese e della Nazione, ritengo sia indispensabile provare, tutti insieme, ad accendere tutte le luci possibili dell’intero firmamento della civiltà giuridica, per dare nuova linfa e nuova vigoria alla fonte dei principi costituzionali alla quale ci siamo tutti orgogliosamente abbeverati e formati.

Occorre aver il coraggio, come cittadini, di dire basta, una volta per tutte, alla supina soggiacenza all’attuale reso immunodepresso sistema Italia, gestito da soggetti senza patria, che fanno del giustizialismo, della negazione della conoscenza, dell’oscurantismo e della negazione delle libertà la propria ragion d’essere;

di impegnarsi a far rinascere il senso ed il valore liberatorio della giustizia (oggi, malauguratamente messo in discussione dai gravi scandali imputabili a non pochi dei suoi agenti istituzionali) così da consentire di affrontare efficacemente ogni emergenza, compresa l’attuale, peraltro, ictu oculi, impropriamente legittimata dal manto di fragili argomentazioni contingenti, di natura confusamente etica – intrisa di non commendevole giustizialismo abbinato all’idea distorta di una giurisdizione esclusivamente orientata a ravvisare comunque, costi quel che costi, un colpevole da sanzionare, sulla scorta del non fisiologico, anzi aberrante pregiudizio secondo il quale è l’effetto della punizione a giustificare l’esistenza del precetto normativo – piuttosto che giuridica (Stato di diritto);

di spingere con dignitoso orgoglio per l’avvio immediato di un’articolata e decisiva riforma legislativa che preveda lo snellimento concreto della macchina burocratica nel suo complesso;

procedure amministrative più flessibili e meno adempimenti formali nonché l’eliminazione della gran parte di tutte le complicazioni (legislative e burocratiche) che oggi appesantiscono l’efficacia dell’agire delle P.A. e finalmente riuscire a mandare in soffitta il cappio di irragionevole sospetto che opprime e sottrae capziosamente ad ogni cittadino l’esercizio pieno dei propri diritti fondamentali.  

In tale ottica per un serio progetto di ricostruzione economica e per recuperare il gap competitivo del Paese e la capacità di attrazione dei singoli territori, si impone

la drastica riduzione della pressione fiscale,

la necessità di addivenire alla semplificazione delle norme e delle procedure amministrative attraverso la riduzione, in un quadro unitario di riferimento, della complessità delle leggi e la realizzazione di procedure certe anche nei tempi del loro esperimento;

la concreta valutazione ex ante dell’impatto delle nuove norme nonché un più agile accesso alle informazioni necessarie all’auspicato processo di adeguamento; una migliore digitalizzazione dei servizi;

l’alt alla continua richiesta di sempre ulteriore documentazione da parte delle P.A.;

l’applicazione del concetto della c.d. decertificazione per alleggerire l’assurdo peso degli adempimenti;

la drastica riduzione del numero delle autorizzazioni e dei permessi per l’apertura di qualsiasi azienda o esercizio;

la previsione di procedure edilizie più celeri e con meno commistione di adempimenti;

la limitazione della sovrapposizione di competenze;

un piano di controlli formali meno assillanti; ed infine l’obbligo di sanzionare la mancata assunzione di responsabilità da parte dei funzionari.

Occorre in buona sostanza costruire un sistema di adempimenti che esalti le libertà invece che opprimerle.

Sarebbe la più bella delle vittorie poter godere della caduta del muro dell’attuale e pervasivo potere burocratico insensatamente fondato sulla dissuasione e sui paralizzanti “non posso pendermi la responsabilità, manca una firma, è competente un altro ufficio, il funzionario è in ferie”.

Purtroppo a far sfumare il plastico ordine dell’ipotesi di normalità sognata e dianzi prospettata, interviene, ancora una volta, il Governo con il monstrum giuridico definito fantasiosamente “Decreto rilancio”, la cui abnorme prolissità contenutistica sia in pagine che in articoli riflette paradigmaticamente l’odiosa cultura della diffidenza verso il libero agire dei cittadini e delle imprese e che si compendia nel leitmotiv di sempre: il potere burocratico ed il suo devastante funzionarismo vanno gelosamente preservati per il loro ruolo di “motore immobile, di sentinella occhiuta dello stare decisis.

Svanisce così, ancora una volta un’occasione d’oro, un’opportunità concreta di riuscire ad affrancare il Paese dal cappio di un sistema burocratico connotato da tempi e costi che lo rendono obiettivamente insopportabile, forse il peggiore d’Europa.

Che tristezza!                                                            

[1] Delfino L.M. “L’importanza degli studi classici nella formazione universitaria europea” in Racconto di un anno, Figure ed eventi. Celebrazione del bicentenario della fondazione del Liceo Classico “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, pp. 75 e ss. – Rubettino editore 2018

[2] Delfino L.M. “L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia” in Filodiritto editore, rivista on line www filodiritto. com., gennaio 2016

[3] Delfino L.M. “Ancora qualche riflessione ermeneutica quantomeno di buon senso sull’abnorme potere discrezionale della P.A. procedente in tema di interdittive” in Filodiritto editore rivista on line www filodiritto.com., ottobre 2016

[4] Delfino L.M. Eppur si muove: prove qualificate di erosione di un monolite illiberale che “… infiniti addusse lutti …” ai principi ed ai valori dello Stato di diritto in Filodiritto editore rivista on line www filodiritto.com., aprile 2020

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La sera del giono 1 settembre u.s., nella suggestiva cornice del Chiostro di San Giorgio al Corso, su iniziativa dell’Associazione culturale Anassilaos e dell’Unione Sidacale Forense del Distretto della Corte di Appello di Reggio Calabria, davanti ad un numeroso, attento e competente uditorio composto da studiosi, professori universitari e prestigiosi professionisti,

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CAMERA DI COMMERCIO DI MILANO

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Avv. Valeria Marina Affer

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